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venerdì 10 novembre 2023

Presentazione del racconto Celinne

Si racconta la storia di un profugo latinoamericano che cerca di guarire dalle ferite emotive subite e essere stato stuprato in prigione.  Lo stupro ai uomini, un argomento tabù del quale sappiamo che è ancora meno riportato di quello sulle donne, è al centro della narrazione. Il racconto di Fabrizio si focalizza su un uomo che lotta per guarire di questa esperienza traumatica. Racconta il rapporto con donne che non riescono a comprendere il suo dolore, perché anche loro sono vittime della masculinità egemonica e tossica della nostra società.  Una di loro addirittura  attraverso il filtro del suo dolore che solo gli permette vedere agli  uomini stereotipicamente come aggressori. L'incomprensione e il distacco incontrati è un invito a riflettere sui lati sorprendenti della masculinita egemonica che valuta la durezza, la dominanza e il distacco emotivo. Per gli uomini, ciò può creare pressione nel conformarsi a questi ideali, spesso a scapito della loro salute mentale o benessere, in particolare se hanno subito traumi o violenze sessuali, in quanto ciò può entrare in conflitto con le nozioni di essere forti o invulnerabili. Per le donne, la mascolinità egemonica può perpetuare la disuguaglianza di genere e giustificare la subordinazione delle donne e degli uomini non egemonici. Spesso perpetua dinamiche di potere nocive e scoraggia l'espressione della vulnerabilità, che può inibire sia gli uomini che le donne dal cercare aiuto o dall'esprimere emozioni. Su questo sfondo il protagonista di questo racconto cerca di costruire resilienza nonostante tutto.

La storia colpisce emotivamente i lettori, toccando temi come la vulnerabilità, la lotta con i demoni del passato e la ricerca di comprensione e accettazione. Il viaggio introspettivo del protagonista e le complessità delle relazioni umane emergono, insieme alle sfide nel rivelare i propri dolori più celati.

I lettori che hanno vissuto lotte simili possono trovare solidarietà nella storia del protagonista, mentre altri possono apprezzare la resilienza che deriva dal confrontarsi e accettare il proprio passato. La struttura narrativa, che intreccia il trauma passato con le relazioni presenti e la ricerca di un confidente che possa veramente comprendere, potrebbe risonare emotivamente, spingendo i lettori a riflettere sulle proprie esperienze di guarigione e sul potere del collegamento umano.

Lo sviluppo del personaggio è sfaccettato, mostrando un protagonista profondamente influenzato dal passato ma capace di crescita e introspezione. La sua lotta interna con un evento traumatico viene ritratta con complessità, illustrando gli effetti duraturi di tale esperienza sul senso di sé e sulle interazioni con gli altri.

La trama del racconto si snoda attraverso temi di trauma, recupero e ricerca di comprensione e intimità, coinvolgendo i lettori nell'esplorazione del viaggio emotivo complesso del protagonista, delle sue interazioni con altri e della lotta per trovare qualcuno che lo comprenda veramente. La narrazione, oscillando tra passato e presente, i pensieri interni del personaggio e le sue interazioni, contribuisce a una trama che mantiene l'attenzione del lettore per la sua profondità e risonanza emotiva.

Trovate il racconto qua:

 

sabato 24 giugno 2023

Celinne (It)

Presto la versione elettronica della 'raccolta di racconti del bloody migrant' sarà disponibile solo su Kindle




Non avrei mai immaginato che il veleno del serpente, dopo molti anni, si sarebbe manifestato in modi cosi imprevedibili.

Quel giorno eravamo  fuori dall’ufficio, durante la pausa pranzo. Eravamo seduti vicino all’uscita posteriore, davanti al parcheggio, a ridosso dell’autostrada. Deborah stava fumando una sigaretta. Quella era proprio l’autostrada che avevo percorso la prima volta che arrivai in Yorkshire molti anni prima, senza sapere che sarei finito a lavorare a Leeds, una città che sarebbe poi divenuta la mia residenza per molti anni.

Quella mattina, Deborah mi sussurrò queste parole:

-Solo una donna sa come ci si sente quando il suo corpo viene penetrato dal membro di uno stupratore.

Rimasi in silenzio, per rispetto, permettendo al suo dolore di penetrare dentro di me. Abbiamo tutti degli scheletri nell’armadio, pensai. Volevo mostrarle la mia comprensione, la mia solidarietà, il mio affetto. Volevo dirle qualcosa come: “Non è stata colpa tua”, ma mi parve un commento sciocco ed inopportuno. Avrei voluto dirle: “ Hai incontrato un mostro sul tuo percorso che ti ha usato, è stato un incidente, come un mattone che ti cade in testa da un palazzo in costruzione, tutto qua”. Ma tutte queste parole non dette mi sembravano goffe e inappropriate, perciò rimasi in silenzio, rispettosamente, ma anche quel silenzio mi parve goffo ed inappropriato.

Dirle che tante persone vivono esperienze simili, o anche peggiori, sarebbe stato inutile. Non è ciò che ha bisogno di sentire, pensai. C’è sempre qualcuno che sta peggio di te, e c’è sempre qualcuno pronto a paragonare il tuo dolore con quello di qualcun’ altro. Non sarei stato uno di quelli.

-Adesso sei qui, al sicuro - fu l’unica cosa che riuscii a dire, mentre le prendevo la mano. Lei allontanò la mia mano dalla sua, ma io continuai ad ascoltarla e a lasciare che il suo dolore penetrasse dentro di me. Mi parve che prenderle la mano fosse stato un gesto estremamente fuori luogo: la sua sofferenza era dovuta al fatto che qualcuno avesse abusato del suo corpo ed io le avevo preso la mano. Che gesto insensato ed insensibile. Che idiota che sono.

-Non puoi capire cosa si prova, perché non sai cosa significa essere molestati per tutta la vita, fin dall’infanzia, quando non conosci neanche il significato della parola molestia- Probabilmente, stava ripensando a ciò che mi aveva raccontato poco prima, un evento che le era accaduto da bambina, quando un pedofilo le aveva sorriso dal finestrino della sua macchina mentre lei era seduta sul pullmino della scuola. Pochi secondi dopo, lo aveva sorpreso a masturbarsi alla guida. A quell’età non poteva sapere cosa quell’uomo stesse facendo, ma aveva avuto la sensazione che si trattasse di qualcosa di sporco e sbagliato.

-Tu non puoi sentire quello che sentiamo noi - disse, quasi con orgoglio -Devi passare per la stessa situazione per capire, ma sei un uomo, e tutti gli stupratori sono uomini.

Rimasi in silenzio, rispettosamente. Sapevo che sarebbe stato inutile dirle che i pedofili perseguitano sia i bambini che le bambine, e sarebbe stato polemico ricordarle che anche i bambini possono essere vittime di pratiche sessuali fortemente umilianti. Ma a che scopo? Deborah aveva bisogno di sostegno ed io pensai che solo il mio silenzio potesse alleviare il peso dei suoi ricordi. Quindi rimasi ancora in silenzio ad ascoltarla, e potevo udire l’eco delle sue parole rimbombando nella mia mente: tutti gli stupratori sono uomini. Quelle parole rendevano difficile il poter provare completa empatia per le vittime, poterne far parte, essere come loro. In un angolo della sua mente giaceva l’idea che io fossi il nemico, e ciò creava distanza fra noi. Feci attenzione a non prenderle nuovamente la mano, dato che ai suoi occhi non ero nient’altro che un  potenziale stupratore, ma il mio volto doveva celare uno sguardo di comprensione, perchè Deborah ebbe una reazione piuttosto infastidita, e disse:

-Anche quando una donna non ha mai subito uno stupro o una molestia, riesce a capire cosa significa. Noi  donne siamo sensibili ed emotivamente ricettive, femminili, appunto. Voi uomini siete rigidi e chiusi, o perlomeno è ciò che vi viene insegnato. Siamo diversi, perciò tu non potrai mai comprendere come ci si sente ad essere abusati sessualmente …

A quel punto, io smisi di ascoltare. L’unica cosa che riuscivo ad udire era il suo tono di voce accusatorio, ma la mia mente si era completamente distaccata. Osservavo le macchine che uscivano dall’autostrada e percepivo il rumore dei loro motori, ma non facevo neanche caso al traffico.  I miei pensieri tornarono indietro, al giorno in cui fui stuprato.

Quel giorno mi picchiarono dappertutto, ma io non sentivo neanche il dolore dei colpi, forse a causa dell’adrenalina, della paura e della rabbia, ma la mia mente non era abbastanza offuscata da non registrare il contatto del mio corpo col membro del tipo che cercava di penetrarmi. All’inizio fece fatica e gli altri prigionieri si misero a ridere, ma ad un tratto successe. Sentii qualcosa entrare dentro il mio ano e provai una sensazione di profonda umiliazione. “Verga, me estan cogiendo”, pensai. Cazzo, mi stanno inculando. Sentii un fuoco nel petto, e cominciai a piangere. Non volevo che gli altri prigionieri mi vedessero piangere, ma non riuscii a resistere. “Llora, mamita”, piangi frocio, gridavano mentre ridevano di me. Allora io decisi di concentrarmi solo su un’idea: ciò che stava accadendo non era né colpa mia né una mia decisione, ma responsabilità e scelta di quella bestia mostruosa alle mie spalle. Pensai intensamente a ciò che Julio Escalona, un ex guerrillero, mi aveva detto di fare se mai mi fossi trovato sotto tortura: proteggi la tua anima. Dovevo proteggere la mia anima, perché il mio corpo, momentaneamente, non mi apparteneva più.

 

Deborah continuava a parlare mentre i ricordi di quel giorno riaffioravano confusamente, come dei flashback sparsi qua e là. Il petto in fiamme, i pensieri in un vortice e una sola ancora di salvezza: le parole di Julio che mi preparavano alla possibilità di essere torturato, dato che avevo deciso di entrare nel partito. Il torturatore, mi aveva spiegato Julio, è una persona piena di odio che è consapevole della tua natura amorevole. Non ha ideali, ma sa che tu ne hai; soffre, perché si sente inferiore, ignorante, meschino, e odia la tua generosità, la tua saggezza, la tua consapevolezza. Vuole farti diventare come lui, una bestia. Vuole sentirsi superiore a te, ma soprattutto desidera che tu diventi come lui. Vuole darti una lezione perché ritiene di sapere come funziona il mondo, mentre tu non lo sai. Perciò l’unica cosa che può salvarti dalla pazzia in una situazione come quella è la consapevolezza che passerà e che lui rimarrà ciò che è, e tu ciò che sei. Passerà e tu rimarrai ciò che sei, non diventerai un mostro. Ma l’unica maniera per non perdere te stesso sarà capire che è stato solo un incidente, nient’altro.

I flashback andavano e venivano, mentre le parole di Julio erano ancora chiare e presenti e facevano parte del mio armamentario difensivo nella mia lotta contro i cattivi ricordi. La mente è potente, quegli attimi passeranno, ma ciò non cambia la realtà. La sensazione del suo membro che penetra dentro di me molteplici volte è reale, così come il dolore che ne consegue e l’umiliazione a cui si aggiunge la rabbia che mi brucia in petto e la vista degli altri prigionieri che urlano: “Dale duro, llora mamita”. Rompigli il culo a quel frocio, fallo piangere. Dolore, umiliazione e disgusto, non saprei dire quale sia peggio. Tutti questi ricordi riaffiorarono improvvisamente insieme a fantasie di vendetta, in cui io mi facevo valere e ammazzavo tutti i presenti fracassandogli la testa contro il muro, il pavimento, le scale. Quante volte avevo immaginato di far soffrire a quei mostri le pene dell’inferno, e in quel modo trovare un riscatto al mio dolore. All’improvviso i miei pensieri vennero interrotti.

-E per questo motivo, tu non puoi capire - concluse Deborah.

Chissà quali altre idee aveva espresso fino ad allora, ma le sue conclusioni erano chiare: io non potevo sentire quello che sentiva lei, io ero l’altro, l’aguzzino. A quel punto, sentii il bisogno di farle sapere che si sbagliava. Fui travolto da emozioni contrastanti. Da un lato, desideravo creare un ponte tra noi, per potermi avvicinare a quell’essere umano che stava soffrendo; dall’altro lato, rifiutavo l’idea di usare il mio dolore per stemperare la sua rabbia nei miei confronti, in quanto rappresentante, in quella circostanza, del genere maschile, degli stupratori. Infine, mi sentii incoraggiato a rivelare ciò che mi era successo mentre ero in prigione. Ebbi un dubbio e aspettai. Poi mi decisi a parlare. Le mie gambe tremavano, mentre, con la voce rotta, le rivelavo i dettagli più crudi di quell’esperienza. All’improvviso, come se non avesse ascoltato nulla di ciò che le stavo dicendo, mi chiese:

-Sei stato stuprato?

La sua domanda mi fece sentire molto a disagio, dato che non vi era nessun dubbio su ciò che era accaduto. Il tempo per la pausa pranzo stava per finire, così Deborah terminò di fumare la sua sigaretta in silenzio e tornammo a lavoro. Una volta rientrati in ufficio, mi salutò e nei due giorni successivi evitò di parlarmi.

Il terzo giorno Carolina, la mia collega spagnola, mi disse che aveva parlato con Deborah, la quale si era lamentata del fatto che io avessi tirato fuori delle questioni personali. Disse che Deborah le aveva confessato di essersi sentita a disagio durante quel dialogo. A disagio?

-Sei sicura che ti abbia detto così? - le chiesi.

-Sicurissima. Di cosa avete parlato? - mi domandò

-Cose personali, è vero … lasciamo stare …

Non potevo crederci. Le avevo rivelato il più intimo dei miei segreti, aveva visto come le mie gambe tremassero e udito la mia voce rotta dall’emozione, ma la sua unica reazione era stata quella di sentirsi a disagio … pensai che forse non aveva capito bene, che si era distratta mentre le raccontavo quelle cose, che anche a me a volte succede di non prestare attenzione a ciò che mi viene detto, perso nei miei pensieri …

Nei giorni a seguire, presi le distanze da lei. Potevo vederla dall’altro lato della stanza, seduta alla sua scrivania,  concentrata sul computer e sul lavoro da svolgere, ma evitavo di incrociare il suo sguardo, perché sapevo che mi avrebbe ferito. Per fortuna, poco tempo dopo, trovò un altro lavoro e se ne andò. Da parte mia, imparai a mantenere le distanze da qualunque donna che facesse grandi apologie sul genere femminile. Mi ritengo di essere un uomo che sta dalla parte delle donne, e lo sarò sempre, ma era ovvio che dovevo stare alla larga da donne come Deborah, per il mio bene. Donne che non amano le altre donne, ma semplicemente odiano gli uomini. Lei era per il movimento femminista ciò che i comunisti “radical-chic” furono per il mio popolo in lotta. Avevo preso le distanze da questa tipologia di comunisti, e decisi che non avrei mai più rivelato ad una donna che si fosse proclamata superiore a me nella sua capacità di comprensione dei fatti, solo in quanto appartenente al genere femminile, ciò che mi era accaduto. Mai più. Sarebbe stato come dare al mio stupratore un’altra soddisfazione, quella di aver avuto ragione nel pensare che nessuna donna mi avrebbe più rispettato a causa di quella violenza; col suo comportamento, Deborah aveva completato l’opera del mio aguzzino. Avrei voluto andare fuori casa sua, davanti alla porta di casa, premere il campanello e aspettare che aprisse, per poi urlarle in faccia:

-Hai fatto un ottimo lavoro, stronza. Vaffanculo –, ma non lo feci.

Passarono i mesi, e poi gli anni. Mi lasciai alle spalle l’accaduto, ma tenni fede alla promessa che avevo fatto a me stesso, di mantenere le distanze da qualunque donna che facesse grandi proclami, e non mi era difficile farlo, dato che facevo la stessa cosa con i comunisti radical-chic, come li chiamavo io, e i cristiani ferventi, sempre pronti ad abusare del nome di Dio, del Signore e di Gesù Cristo. Per il resto, mi sentivo in pace con le donne in generale, comprese le femministe, in particolare con Katerine.

Katerine fu la seconda donna a cui rivelai ciò che mi era accaduto. La amavo, e poco dopo averla conosciuta cominciai a pensare che potesse divenire la mia compagna. Era una donna piena di energia e desiderosa di impegnarsi in una relazione e queste cose mi fecero sperare che fosse la persona più adatta a me. La desideravo tantissimo. Era una donna molto comprensiva ed empatica, ed anche lei lavorava nel mio stesso ufficio. Per costruire una relazione con lei, dovevo necessariamente condividere i miei pensieri più intimi, i miei problemi e le mie esperienze passate. Dovevo mostrarle la mia anima, o almeno così credevo. Deborah se n’era andata già da qualche anno, aveva trovato un altro lavoro con più responsabilità e pagato di più; per fortuna non l’avevo più vista. Dovevo fare attenzione a non mostrare mai più quella parte rovinata della mia anima ad un’altra Deborah, ma pensavo che Katerine fosse diversa. La dolcezza della sua voce, la calma con la quale interagiva con me, i suoi sguardi e l’attenzione con cui mi ascoltava non avevano nulla a che fare con Deborah. Di fatto, me la fecero dimenticare.

L’amicizia con Katerine si fece sempre più profonda. Spesso camminavamo dall’ufficio alla stazione dei treni insieme, e a volte ci fermavamo per una birra in qualche pub. Un giorno ci trovavamo alla stazione di Leeds ad aspettare i nostri treni per Bingley e Saltaire, ma per qualche motivo c’erano dei ritardi. Stavamo chiacchierando e come al solito lei mi aveva preso la mano. Lentamente mi accorsi che qualcosa stava succedendo: Katerine guardava le mie labbra e improvvisamente smise di parlare. Cominciò ad inumidire le sue con la lingua, un po’ alla volta, e a sfiorare il mio stomaco con la mano. Mi sentii eccitato da ciò che stava accadendo proprio lì, alla stazione, vicino al binario dei treni. Avevo smesso di prestare attenzione a ciò che diceva nel momento in cui mi ero accorto che stava tenendo la mia mano più a lungo del solito, e il mio desidero nei suoi confronti crebbe, ma mi trattenni. Calmati, mi dissi, non farti travolgere da idee sbagliate. Katerine è una collega ed un’amica, non rovinare tutto. Ma non potevo controllare le reazioni del mio corpo e lei si accorse che le stavo guardando le gambe, desideroso di infilare la testa tra quelle cosce deliziose. I segni del mio desiderio diventavano sempre più evidenti e rompevano le barriere che le parole, pronunciate timidamente, cercavano a stento di mantenere. Cominciò a piovere e in quel momento arrivò il mio treno. Con uno sguardo malizioso, Katerine sali con me sul vagone, diretto a Saltaire. Fu una sua decisione.

Il treno viaggiò alla velocità della luce e il tempo sembrò dissolversi. Lei mi parlava ma io non la ascoltavo, perché l’unica cosa a cui potevo pensare era il desiderio di farla mia. Succede sempre così, all’improvviso perdo il filo del discorso perché l’istinto prevale e tutte le mie buone intenzioni femministe svaniscono. Lei cerca di colpirmi con i suoi discorsi e la sua intelligenza, ma io non ascolto più e smetto di ragionare. Vorrei solo avvicinarmi a lei e cominciare a baciarla, ma non lo faccio mai.  Anche se sto perdendo coscienza di me stesso, in qualche modo riesco a controllarmi e aspetto che sia lei a fare il primo passo. Ma nessuno dei due fece nulla durante il viaggio in treno, e così arrivammo a Saltaire e decidemmo di fermarci in un bar, che un tempo era stato una stazione del tram, un posto molto conosciuto in città. Prendemmo qualcosa da bere e da mangiare, dopodiché ce ne andammo verso una destinazione ignota. Ci baciammo nel momento in cui lei si stancò di aspettare che io facessi la prima mossa. Fu lei a decidere il momento propizio: si fermò davanti a me, mi guardò negli occhi e sorrise.

Dopo esserci baciati, sentii immediatamente la necessità di rivelarle quel segreto che mi lacerava l’anima. Dovevo confessarle la verità, spiegarle che ero stato un uomo ferito ed umiliato. Non potevo evitarlo, se volevo creare una relazione autentica con un altro essere umano. Camminammo l’uno accanto all’altra tenendoci la mano, ed arrivammo ad una panchina nel parco. C’era ancora molta luce, perché in Inghilterra le giornate primaverili sono molto lunghe e quando c’è il sole appaiono ancora più belle, in contrasto con i giorni di pioggia, che sono molto frequenti. Era un giorno speciale, perfetto per rivelare la verità. Sentivo un profondo amore, ma anche molta paura. Temevo di poter essere rifiutato. Ancora una volta, la mia voce si ruppe e le mie gambe cominciarono a tremare. Mi avvicinai alla panchina e mi sedetti, perché facevo fatica a stare in piedi. Di nuovo, stavo lasciando che quei ricordi, che avevo cercato di cancellare disperatamente, riaffiorassero. A volte quei ricordi ritornavano inaspettati e mi riempivano di dolore e sgomento, ma volevo che Katerine conoscesse questo fantasma, uno dei tanti, e cosi cominciai a raccontarle dell’accaduto. Lei mi ascoltò con attenzione, fino alla fine. Non inventò nessuna scusa per sfuggire a quella confessione, né ebbe bisogno di chiedermi se ciò di cui stavo parlando fosse una violenza sessuale. Fu semplicemente perfetta e mi fece sentire amato ed accettato. Quando ci alzammo dalla panchina, mi abbracciò a lungo. Adesso che le avevo rivelato il mio segreto più oscuro, potevo farle l’amore. Il veleno lasciato dal serpente era stato spurgato.

Riprendemmo a camminare mano nella mano, ed io mi sentivo leggero, liberato infine dal carico di adrenalina che la paura del rifiuto aveva creato. Ero pronto e desideroso di unire il mio corpo al suo, di baciarla ovunque, di sentire che eravamo una cosa sola. Il mio cuore batteva all’impazzata quando arrivammo al mio appartamento. Katerine disse qualcosa, ma io non capii. Il mio cervello si era ormai chiuso a qualunque messaggio che non fosse direttamente legato a ciò che stava per succedere. Le afferrai una mano e cominciai a dirigermi verso la camera da letto. Contro le mie aspettative, Katerine fece resistenza e girò la testa in direzione del divano. Il suo comportamento indicava chiaramente che non aveva intenzione di fare l’amore, ma dato che mi era difficile poterlo credere, si decise a parlare:

-Non ancora- credo che disse.

-Va bene, non ti preoccupare, non c’è fretta - risposi immediatamente, come se fosse tutto chiaro. Pensai che forse non era il momento giusto, magari aveva il ciclo e poteva sentirsi in difficoltà, forse era come Isabel, che rifiutava categoricamente di avere sesso in quei giorni. Ma mi sbagliavo, e come se il linguaggio del corpo non bastasse, anche le parole che più temevo furono pronunciate.

-Ti vedo solo come un amico.

Odiavo quella frase. Prima o poi, avrei trovato il coraggio per rispondere: “Anche io ti vedo solo come un’amica. Non voglio mica sposarti, voglio solo scopare”. Come posso essere amico di una donna che non mi considera per quello che sono? Ero sicuro di ciò che stava accadendo: ci eravamo baciati, lei era salita sul treno con me, e il desiderio sessuale era cresciuto sempre di più. Semplicemente aveva cambiato idea nel momento in cui le avevo rivelato il mio segreto. Ancora una volta, sentii quell’orribile sensazione di rifiuto. Il mio aguzzino aveva vinto di nuovo. Potevo vederlo sghignazzare  insieme a tutti gli altri prigionieri, con quel sorriso sdentato e dire soddisfatto: Ti ho inculato di nuovo, stronzo. Nessuna donna ti rispetterà mai più. Il veleno che pensavo si fosse quasi estinto dal mio corpo, riprese improvvisamente a scorrere nelle vene.

Presi le distanze da Katerine. Sapevo che non era una persona cattiva e che forse avrebbe anche voluto mettersi in discussione per me; ero consapevole del fatto che abbiamo tutti delle contraddizioni e a volte le emozioni prendono il sopravvento sulle nostre convinzioni. Non possiamo sempre controllare le nostre reazioni: una persona può essere vegetariana e allo stesso tempo amare l’odore del bacon fritto, succede. Katerine non riusciva a vedermi come un uomo, dopo aver saputo del mio incidente, succede. Dovevo accettare che il nostro cervello è fatto così, non può sempre assecondare le nostre convinzioni più sofisticate. Spesso, sono gli istinti a prevalere e non sempre si riesce a cambiarli. E’ così che funziona, è un sistema difettoso, ma bisogna accettarlo. Razionalmente, riuscivo a comprendere il suo comportamento, ma era difficile accettare di essere scartati come spazzatura. Così un po’ alla volta, presi le distanze da lei. Non volevo ferirla né creare un dramma, semplicemente smisi di cercarla e anche lei sembrò perdere interesse nei miei confronti. Arrivò il giorno in cui decisi di non chiamarla più.

Quel giorno, ero particolarmente triste. Stavo camminando lungo il bordo del canale a Saltaire e avrei voluto parlare con qualcuno. Presi il telefono in mano e cercai il suo nome tra i miei contatti, ma non la chiamai. Nuovamente, presi la stessa risolutiva decisione di un tempo: non avrei mai più parlato del mio incidente con anima viva. Mai più. Julio Escalona si sbagliava o perlomeno non mi aveva detto tutta la verità. La verità era che sarei stato solo a combattere contro il mio aguzzino, per il resto della mia vita. Neanche Dio sarebbe stato al mio fianco. Nessuno. Così è la vita, brutale ed io avevo avuto la mia porzione di brutalità. L’unica maniera per vivere dignitosamente, era di mantenere il segreto. Perché mai avrei dovuto rivelare chi e come aveva penetrato il mio ano? E’ una cosa importante solo per me, perché io ritengo di essere stato umiliato e lascio che questi pensieri crescano dentro di me. La verità non è così importante, l’unica cosa che conta è la mia vita, le mie lotte, le mie vittorie, non quell’incidente! E il modo in cui ragionano gli altri, anche quello è un incidente, un difetto di fabbrica. Quindi l’unica via percorribile nella mia situazione è quella di mantenere il segreto. Se mai avessi incontrato una donna immune al mio veleno, che si fosse innamorata di me, le avrei fatto sentire tutta la potenza del mio amore, che è immensa, e la mia volontà ad accettare tutto di lei. Troverei un modo per farle capire che ogni cellula del mio corpo è pronta ad accettarla per quello che è, e ad accettare tutto ciò che da lei proviene, ogni sua debolezza, ogni sua vergogna, tutto. Avevo dovuto riconnettere il mio cervello per riuscire ad accettarmi, e questa era la ragione principale per cui sarei stato in grado di amare il prossimo come nessun altro. Io sono un sopravvissuto, sono più forte degli altri. Possiedo antidoti per veleni molto potenti e ne sono consapevole.

Passarono gli anni. Sopravvissi alla morte del mostro Zamani, alle lotte dei Bajunis, al suicidio di Mamosta, alle stronzate della Brexit che fecero merda del mio cervello; Mohammed ottenne i suoi voucher extra, mi accusarono della morte del figlio di Hirut e dello stress di Jonathan, finalmente feci fuori Charlotte. Avevo abbastanza nuovi traumi da dimenticare le mie vicissitudini in Venezuela, finchè vidi il corpo senza vita di Sofia, e decisi che dovevo scrivere su di lei. Sarebbe stato facile sedermi da qualche parte e farlo e così comprai un biglietto per la Sicilia, e me ne andai.

Scelsi Palermo. Fenicia, greca, romana, araba, bizantina, normanna, spagnola ed infine, italiana. I resti di tutto ciò che di buono e di meno buono ci furono nel mondo occidentale si trovano qui, presenti nella sua architettura, cultura e gastronomia. Ci sono montagne per arrampicarsi  e spiagge per andare a nuotare. Quando l’aereo atterrò, provai una forte emozione alla vista del Monte Pellegrino, del mare da un lato e della città dall’altro, proprio come a Caracas. Qui avrei scritto il mio libro per Sofia, magari con l’appoggio di un’amante italiana, passionale e sensibile, al mio fianco, ben diversa dalle donne che avevo frequentato in Inghilterra. Il sole del mar Mediterraneo mi avrebbe aiutato a rinfrescare la mente, e fu così che conobbi una poetessa, Helene.

In effetti, Helene era unica. Innanzitutto parlava francese, e il suo inglese aveva quella particolare intonazione che mi piaceva da matti; poi era così diversa dalle persone che avevo conosciuto in Gran Bretagna, soprattutto non beveva come loro. Forse posso diventare un suo caro amico, pensai poco dopo averla conosciuta. Le rivelai molti dei miei problemi e lei mi ascoltò sempre con grande attenzione, ma non le dissi mai dell’incidente. Helene amava passeggiare con me lungo la Marina di Palermo e vicino al Foro Italico, un bellissimo viale accanto al mare. Da lì si scorgono le montagne e si vede il mare, la città vecchia e in lontananza i palazzi di Bagheria, il paese dove furono girate molte scene di Cinema Paradiso. I rumori della città si mescolano distanti al suono delle onde che si infrangono sugli scogli. Tutt’intorno si vedono bambini che giocano, ragazzi che chiacchierano, anziani che passeggiano e amanti che si baciano. Ci trovavamo in questo lungo anche il giorno in cui Helene cominciò a parlarmi del suo segreto, e così seppi che anche lei aveva subito un incidente, simile al mio. Era addirittura finita in ospedale a causa di quella violenza, in Canada, ma disse che ormai era acqua passata. Tornammo in ostello senza aprire bocca, ed io pensai che il mio silenzio le aveva forse fatto pensare che avevo accolto completamente il suo dolore dentro di me. E così passò quel giorno, e molti altri. Tornammo molte volte sul Foro Italico e vicino alla Marina, e ogni volta riconoscevamo dei volti che avevamo già visto. Parlavamo dei nostri sogni, del libro che lei stava scrivendo e delle sue poesie. Parlavamo anche del futuro e a me parve che l’aver saputo del suo incidente ci avesse fatto avvicinare.

Camminavamo tra le strade della parte vecchia di Palermo ed io ascoltavo con piacere qualunque cosa lei avesse da dirmi. Mi leggeva le sue poesie in francese, e con pazienza, mi dava tempo per comprenderle ed assimilarle, dato che il mio francese non è molto buono. Volle leggermi anche  le poesie tratte dal suo “libro rosso”, e tra quelle le più audaci. Anche io le parlavo di me, del mostro Zamani, del mio lavoro con la Croce Rossa, di Hirut e del libro per Sofia, ma non accennai mai al mio incidente. La nostra amicizia rimase forte, e io continuai a mantenere il mio segreto. Ogni tanto Helene partiva alla scoperta di luoghi sconosciuti in Sicilia, ed ogni volta che tornava, aveva qualche storia da raccontare, non perché qualcosa di particolare fosse accaduto, ma perché aveva un modo di narrare le cose che rendeva ogni vicenda speciale. Io aspettavo con impazienza il suo ritorno, desideroso di conoscere, attraverso i suoi racconti,  nuove città, nuovi paesi e montagne e mari. Un giorno, di ritorno da uno dei suoi viaggi, mi chiese se potessi condividere la mia stanza con lei, dato che l’ostello dove alloggiavamo era pieno. Accettai senza esitazione, sapendo che la sua richiesta non aveva alcun fine erotico. In qualche modo, conoscerla cosi intimamente non aveva suscitato nessun desiderio sessuale in me, stranamente. Pensai che forse stavo cominciando ad invecchiare.

-Posso stare su quel divanetto che c’è in camera tua, se non è un problema per te - disse.

-Certamente – risposi. Non sarebbe stato un problema neanche per il proprietario, e magari avrebbe anche potuto risparmiare qualcosa.

- Potremo chiacchierare a lungo prima di andare a dormire.

-Si, certo, mi farebbe piacere avere qualcuno con cui chiacchierare, se vuoi possiamo condividere la mia stanza ogni qualvolta tornerai da uno dei tuoi viaggi, cosi non devi neanche pagare per un letto – le dissi.

-Non lo faccio per i soldi, ma se risparmiassi qualcosa non sarebbe male – mi rispose ringraziandomi.

Purtroppo, arrivò il giorno in cui scoprii che anche in Sicilia ci sono serpenti velenosi. Helene era andata a Taormina, un’antica colonia ateniese  dove i greci costruirono il teatro più spettacolare al mondo. Dietro lo scenario, si intravede il vulcano fumante da un lato, e il mare dall’altro. A Helene era piaciuta la vista del vulcano, aveva fatto molte cose e scritto dei versi per il suo libro rosso. Al ritorno aveva spostato tutte le sue cose in quella che sarebbe diventata la nostra stanza. Mangiammo delle patatine e un po’ di noccioline, dopodiché cominciò a riporre i suoi vestiti nell’armadio, senza sapere cosa stessi aspettando. Io attendevo con ansia di ascoltare il racconto del suo viaggio, quindi appena ebbe finito di mettere via le sue cose, ci sedemmo sul divanetto. Un improvviso desiderio di intimità mi avvolse. Non era desiderio sessuale, ma solo voglia di intimità: era chiaro che lei era la persona giusta, a cui potevo rivelare il mio segreto. D’altronde, anche lei era passata per lo stesso inferno, anche lei aveva avuto il mio stesso incidente. I ricordi dell’accaduto cominciarono ad affiorare, ed io cominciai a parlare.

-Sono stato torturato. So cosa si prova ad essere stuprati.

Di nuovo, ebbi quella sensazione di panico che provo ogni qualvolta parlo dell’accaduto. Le gambe cominciarono a tremare, e poi tutto il corpo. Questa volta però, feci attenzione a prendere delle pause durante il mio racconto, in modo che le mie parole potessero essere udite chiaramente. Non volevo che accadesse quello che era successo con Deborah, che al termine della mia confessione, aveva ritenuto necessario chiedermi se ero stato violentato, come se ciò non fosse stato chiaramente espresso dalle mie parole.

-So che il danno maggiore è psicologico, soprattutto per l’umiliazione che ne consegue e il ricordo dell’accaduto. Poi subentra il desiderio di vendetta, di fargliela pagare a quei mostri. La percezione di te stesso cambia, e a volte ti sembra di essere divenuto uno stereotipo, una specie di caso umano …

Stavo ancora finendo il mio discorso ma Helene mi interruppe.

-Scusami, tesoro. Non posso ascoltarti oltre. E’ meglio se vado da un’altra parte. Davvero, non è colpa tua, ma devo pensare a me stessa – disse, e uscì dalla stanza.

Da quel momento in poi evitò di parlarmi, ed ogni volta che partiva per uno dei suoi viaggi, non mi diceva più né dove andava, né quando sarebbe tornata. Ogni volta che la vedevo, provavo un enorme dolore. Ancora una volta, mi sentii messo in discussione in quanto uomo, anche se stavolta non capivo come avesse potuto succedere di nuovo. Mi sentii stupido perché avevo voluto nuovamente parlare del mio incidente con una donna. Capii che avevo incontrato un altro serpente, molto velenoso, e nuovamente dissi a me stesso: mai più. Da quel momento in poi, persi completamente la speranza di poter incontrare una donna che potesse divenire la mia compagna. Non avrei mai più commesso quell’errore, eppure non fu così, perché conobbi te, Celine. Tu mi hai fatto far pace con le donne, col femminismo, con la vita. Tu mi hai dato la forza e l’ispirazione per scrivere la storia che scriverò dopo aver finito il libro per Sofia. Se mai uscirò vivo da questo inferno, Celine, scriverò di te.

Mi hai aiutato a curare il mio dolore, mi hai preso per mano quando ti ho raccontato del mio incidente e hai accolto la mia sofferenza; quando che il momento della confessione terminò, mi hai fatto sentire nuovamente uomo. Hai accettato il mio desiderio e mi hai dato l’opportunità di amarti, di farti eccitare, di baciarti dappertutto. Hai goduto nel vedermi assaporare i tuoi succhi, e hai sorriso quando ti ho penetrato con tutta la mia forza. Hai ascoltato con gioia le parole dolci che ho sussurrato al tuo orecchio quando i nostri corpi si sono fermati, bagnati di sudore. Mi hai abbracciato per proteggermi dal freddo, e hai toccato ogni parte del mio corpo. Hai voluto che esplorassi il tuo, ed entrambi abbiamo gioito di aver goduto dei nostri corpi. Ad ogni modo, la parte migliore è stata poter parlare con te mentre eravamo ancora a letto. Avevo bisogno di rivelarti i miei demoni, e una volta imprigionati, ho voluto che vedessi la mia anima di bambino, nascosta dietro la mia apparenza di intellettuale snob, ma ancora presente dentro di me. Volevo che conoscessi tutto di me, in modo che io potessi a mia volta ricevere tutto di te. Hai ingoiato il mio veleno e lo hai risputato, dandomi la possibilità di ricominciare di nuovo. Ti amo.

-Dovresti scrivere qualcosa su queste vicende, sei così bravo a raccontare storie- mi hai detto.

-Ma come posso parlare di me con sincerità, questa storia è troppo sporca.

-Forse la cosa migliore sarebbe inventare una vicenda verosimile, non raccontare esattamente la tua storia – mi hai risposto.

In quel momento pensai che eri la persona giusta per stare accanto ad un aspirante genio, ma la realtà è che tu sei il genio ed io sono solo un operaio al tuo servizio.

-Non importa chi è il genio, la cosa importante è creare un’opera d’arte che parli dell’intimità tra chi si ama - aggiungesti, indovinando i miei pensieri. Capivo perfettamente cosa volessi dire: la tua comprensione dei miei demoni mi aveva riempito l’anima del desiderio di accettare i tuoi, anche quelli più imbarazzanti. Ti avevo confessato i miei segreti, e volevo conoscere i tuoi. La nostra connessione emotiva aveva creato un’attrazione sessuale che era il riflesso della nostra complicità.

-Non parlare di sesso in maniera così esplicita, lascialo da parte per un altro libro - mi dicesti, dopo aver letto quello che avevo scritto. Lo cancellai, ma c’era una frase che volevo lasciare, per esprimere quanto mi era piaciuto fare sesso orale insieme.

-Cancellala. Questo non è il racconto adatto per queste digressioni – mi hai detto.

-Qui è dove parlo del mio incidente e del modo in cui sono venuto a patti con la realtà.

-Cambia qualche dettaglio, non dire tutta la verità.

-Ma in questo modo i lettori non sapranno mai cosa è vero e cosa non lo è. E’ come se li stessi prendendo in giro, qualcuno di loro potrebbe anche rimanerci male – ho provato a spiegarti.

-E allora? Si tratta di storie.

-Quindi, come dovrei cominciare? – ti ho chiesto.

-Scrivi questa frase, in uno dei dialoghi: “Solo una donna sa come ci si sente quando il suo corpo è penetrato dal membro di uno stupratore”.

-Ma è troppo brutale! E poi non è vero, sarei un bugiardo se lo dicessi.

-Che importa se lo sei. Non sarai tu a dirlo, puoi farlo dire da uno dei personaggi.

Amo la tua complicità, Celine, e anche se ci sono stati dei momenti in cui ho pensato che non esistessi, sento che ci sei e che riesci a decifrarmi. Sei qui con me, mentre sento e scrivo.

-Si, ci sono. Tu credi che sono frutto della tua fantasia, ma sono qui. Non ho provato le tue sensazioni sulla mia pelle, ma ero lì con te. Non te ne sei accorto? – mi hai risposto.

-Si, credo di si. Hai vissuto la mia storia a modo tuo, e mi fa piacere che tu lo abbia fatto. Ma come reagirebbe un lettore che fosse un uomo?

In quel caso non ti preoccupare, mi hai detto: se sono arrivati fino a questo punto, proveranno empatia. Avranno pietà sia di me, che di te.

 

 

 

sabato 7 marzo 2020

El Monstruo Zamani









Nos enteramos que nuestras ventanas eran antibalas el día que el monstruo decidió romperse la cabeza con una de ellas. Aquella mañana lo conseguimos tirado en el suelo ensangrentado y medio muerto, nos imaginamos que se había peleado con alguien, pero mientras la ambulancia llegaba, revisamos las cámaras de seguridad y vimos que Zamani, el monstruo, llegó con un ladrillo macizo, de esos que solo se consiguen en Yorkshire. Estaba dispuesto a destrozar los vidrios de nuestras ventanas. Lo tiró con toda su fuerza y rebotó como una pelota de tenis, fracturándole el cráneo, dejándolo inconsciente y ensangrentado. 

Nada peor para un espíritu enfurecido que desatar su ira con violencia y terminar convirtiéndose en el hazmerreír de su entorno. Nuestra gerente, que todos la llamaban Debby para marcar el espíritu democrático, no pudo evitar carcajearse cuando supo del infortunado Zamani, y ella era la única, junto a los administradores, que sabía que habían puesto ventanas anti balas, pues cada semana alguien rompía una ventana en la noche, hasta que un día resolvíó que nuestra oficina tendría ese tipo de ventanas. 

Pocas semanas después Zamani apareció en nuestra oficina. Helenka, la recepcionista vino corriendo a decirme que me encargara de él. Yo tenía fama de ser bueno con los usuarios difíciles. 

-Fab, hay un tío bien difícil, podrás encargarte de él? 

-Por supuesto- dije sin dudar. A nadie le gustaba tratar con usuarios violentos, peligrosos o llorones. Pero yo asumí el criterio de que solo esos usuarios eran interesantes. En parte por mi predisposición ética a quere ayudar a los más necesitados. Pero en parte por una razón muy egoísta. Se había vuelto un juego. 

Sí, un juego. Peligroso, pero un juego. Y divertido, además. Esto lo aprendí en Venezuela, de los indómitos llaneros. Recordé un día el orgullo con el que un bravío domador decía que habría montado el caballo más salvaje, una yegua imposible, y la habría dejado mansita. Y fue así que un día me dije, "con los usuarios, haré lo mismo". Así que si uno llegaba furioso, sudando a mares, rojo, con las venas marcadas, los ojos saltones, el grito contenido, y los dientes apretados, pues yo me decía, en silencio: 

-Aquí estás papito...en un rato te dejo mansito. 

Poco a poco me volví el experto en toda clase de furias y alucinaciones. Y mi querida Helenka sabía que yo anhelaba tratar con toda clase de usuarios endemoniados y fue por eso que inmediatamente me llamó para que me encargara de Zamani. 

-Fab, es el que se rompió la cabeza con el ladrillo, está furioso. Todavía tiene la cabeza bendada. No habla. No dice nada. Se le van a salir los ojos. Te va a encantar. - me decía Helenka, riéndose, pues no entendía como yo podría ser tan loco como para querer encargarme de alguien así. Pero ella sabía que la otra opción era llamar a William, Paul o Vicky, y estos terminarían por decirle, muy deacuerdo a las policies, que nosotros no toleramos agresiones ni insultos. Helenka los sabía de sobra, sin Vanessa o sin mi todo acabaría con la policía involucrada. Zamini le daría un puñetazo a la mesa, rompería algo, gritaría,  tiraría alguna silla contra una pared, y el guardia de seguridad vendría, y con sus cintas negras de no-sé-cuántas artes marciales, lo ataría y diez minutos después vendría la policía. Por eso, y no solo por eso, Helenka me adoraba. 

-Por favor, Helenka, intenta indicarle donde está la puerta de la habitación de seguridad. Lo espero allí. 

El entró por la puerta de un lado de la habitación, yo entré por la otra. Ambos al mismo tiempo. El guardia de seguridad venía detrás. 

-Por favor, déjame solo con Mr Zamani- le pedí al guardia de seguridad. 
-Seguro? 
-Sí.

Me senté en mi silla, enfrentado al escritorio donde estaba mi computadora, y él se sentó en frente mío. 

Buenos días Mr Zamani. 

El no respondió. Puso un codo en la mesa, con fuerza, como si quisiera romper la mesa. Luego puso el otro codo. Luego se reclinó un poco hacia adelante para poner las manos a cada lado de la cara, con los codos firmes en la mesa. Yo me quedé tranquilo, bueno, tranquilo en apariencia, digamos que si alguien me miraba diría que estaba tranquilo, pero yo no podía estarlo porque soy muy malo con los ataques físicos, en la escuela era el peor peleando, en fin, solo me defendía con palabras, no te distraigas, Fabrizio, que a nadie le interesa eso y sigue echando el cuento, y venía diciendo que que igual pude ver que los codos en la mesa fueron agresivos, pero quien busca pelea no pone los codos en la mesa. Yo supuse que iba a terminar bien, pero sabía que al mínimo estímulo negativo el hombre me saltaría encima. Esperé un poco y Zamani no me devolvió el saludo. 

-Voy a hacer lo posible por ayudarlo- le dije –espero que me explique. Esperé pacientemente por su respuesta. 

Y esperé. No me precipité en seguir los procedimientos precisamente definidos por la organización donde trabajaba. El primer paso era preguntar el nombre, confirmar la identidad de la persona, pedir su documento de identidad y confirmar fecha de nacimiento, nacionalidad y demás. Si mi jefe me hubiese estado supervisando habría ya marcado varias X en las “cosas para mejorar”. Por supuesto yo me pasaba ese procedimiento por alto, o para decirlo en buen venezolano, que es como hay que decirlo aquí, me lo pasaba por el mismísimo forro de las bolas. Este tipo estaba furioso y había que oírlo, dejarlo descargar. Esperé, y agregué: 

-Yo espero, no se preocupe, estoy aquí para ayudarlo. - Y Zamani solo movía el pecho por la respiración profunda y controlada. Tenía los brazos gruesos, musculosos, y con las venas marcadas. Yo me imaginaba que el aire que expiraba cuando respiraba salía caliente y vaporoso. Parecía que quería evitar una explosión. 

Y para que no explotara seguí esperando unos segundos más. “Quizás necesita que la adrenalina se le baje”, pensaba yo, un poco preocupado por mi seguridad. Tenía visualizado mi plan de escape en caso de que saltara encima para estrangularme pues daba la impresión que no me daría tiempo para activar el botón de emergencia. Y precisamente cuando eché una hojeada a la puerta, vi a través de la ventanilla que la gerente me hacía una seña a través de la puerta, algo así como tenemos-que-hablar. Por supuesto, no le hice el más mínimo caso. Y me concentré en Zamani. Pero no pasó nada después del tiempo prudencial para bajarle la adrenalina en mi juicio, qué juicio voy a tener si no soy psiquiatra, pero así, desarmado, le dije: 

-Estoy aquí para ayudarlo.- repetí y dejé una breve pausa para agregar – y para ayudarlo necesito saber qué le pasa- 

Dejé que pasaran otros segundos, que a mí me parecían horas, y que a él posiblemente también, pero sabía que esta frase tenía que entrar en su estado de consciencia, que era poca. Poca, sí, pero suficiente para haber llegado aquí, el sitio correcto para recibir ayuda. Como buen venezolano sé muy bien cómo reaccionar en momentos de extrema tensión pues todos hemos pasado por el entrenamiento de ser detenidos por la terrible Guardia nacional, los temibles malandros o cualquiera de las nuevas policías que la dictadura ha creado y que yo no tengo el dudoso honor de conocer. En fin, traté de mantener el mayor tiempo de silencio posible para que la incomodidad lo hiciera hablar.
Pero el que se incomodó fui yo cuando volví a ver a la gerente de reojo que me hacía una seña que aparenté desconocer. Y se me ocurrió de pronto que el problema era quizás que ninguno de los dos hablaba el inglés como lengua principal. Así que en una versión un poco tarzanizada del inglés le repetí. 

-Para ayudar, necesito saber. Si yo sé que te pasa, sé cómo ayudar.- 

Nada. Allí seguía mirando hacia la mesa. Los codos firmes. La cabeza sostenida con las manos. Ni un solo movimiento de las extremidades, solo la respiración, siempre pesada, profunda y sonora. Para mí no era del todo fácil imaginarme lo que él sentía. Daba miedo, no lástima, y por eso todavía jugaba al domador.
Por supuesto, todavía no sabía  que la rabia la llevaba acumulada desde niño. Ni mucho menos  que no le tocaba ser un niño traumatizado, sino un niño consentido de la clase media alta iraní, con estudios en el exterior y toda la sofisticación de la cultura persa. Había tenido una infancia tranquila y privilegiada en Teherán. No se había enterado mucho de la revolución islámica, pues vivía en el mundo protegido de su casa, que incluía personal de trabajo doméstico, y visitas frecuentes de familiares y amigos de sus padres. Viajaban con frecuencia a Turquía donde iban a la playa y su madre disfrutaba de los mercados de Instambul, ciudad que prefería a París o Roma. Pero a Zimani no le impresionaban las playas de Anatolia porque prefería jugar en la piscina de su casa, siempre limpia y muchas veces con algún invitado cuidadosamente seleccionado por la familia. Quien diría que aquel niño se habría metamorfoseado en este monstruo al que todos temían. 

-Tómese su tiempo, Señor Zamani. Yo también soy extranjero y me he puesto muy bravo en este país. No todos nos entienden, lo sé. - y decidí esperar otros segundos más. Quizás minutos. Pero horas en mi percepción distorsionada del tiempo. Y trataba de entender qué pensaba pero no me daba ninguna señal kinética. Su cuerpo inmóvil. Sólo logré imaginarme que la noche anterior al incidente del ladrillo vengativo, Zamani cruzó el norte de la ciudad de Leeds, bajó hacia el centro, tomó un ladrillo inmenso que consiguió en una construcción y caminó hacia el sur de la ciudad. Llegó a nuestra oficina para descargar toda la rabia que tenía contra nosotros, el Home Office, las Naciones Unidas, Dios y la vida. Y todo eso con un ladrillo contra la ventana vengativa, y en esta ocasión, como en todas las demás tanto en este país, como en su nativo Irán, el azar siempre estaba en su contra y con todos sus músculos logró que la ventana le devolviera el ladrillazo. Pobre Zamani. 
Y pobre de mí, que el hombre seguía en silencio. Y pobre de mí que el gerente desapareció y el teléfono interno empezó a repicar, y yo sabía el porqué. Obviamente, la gerente, Debby. Lo desenchufé. Otra vez, atención plena para Zamani. 

-Yo no sé qué le ha pasado a Usted, pero a mí también me han pasado cosas en este país, por eso me vine a trabajar aquí, para ayudar a gente como usted, gente como yo. 

Todavía no sabía cuál era su problema, pero era fácil de adivinar que estaba furioso así que su lío era grave, o al menos para él. Por mi parte, tenía que dejarle entender que hay un ellos y hay un nosotros, hay un tú-y-yo que somos nosotros, no es muy justo con mis colegas, pero es el modo de romper una barrera. Pero nada. El seguía allí, clavado. Todavía escuchaba su respiración. Todavía tenía los codos clavados en la mesa. Todavía no lograba ver una sola señal de que me oía, de que había empatía. Y por supuesto, todavía no había aprendido que su familia cayó en desgracia por la membresía política del padre, y que la revolución los fue despojando de todos sus privilegios muy velozmente. El último de los privilegios en perder fue la libertad de la madre de usar el velo semi descubierto, en clara contravención de las reglas impuestas por los Ayatolas y rigurosamente impuestas por las guardias de la moral. Todavía acostumbrado a los privilegios de niño rico en una sociedad desigual, de niño fue forzado a ver a su madre apedreada en un juicio brutal. Y con cada piedra venían los insultos, para agregar humillación al dolor. Cada piedra que recibía la madre lo hería en el pecho, con un dolor ardiente que no se le quitaría jamás. Y así la vio morir. Y no solo se murió con el dolor de las pedradas y de la humillación, pero con el dolor de ver a su hijo viéndola, para añadir más sufrimiento. Que muerte!

Yo seguía interrogándome sobre cómo romper el hielo. No podía dejarlo ir sin solucionar su problema o mataría a alguien, o se mataría, o tiraría otro ladrillo contra una ventana, preferiblemente no la nuestra otra vez. Y el gerente volvió a aparecer por la ventanilla con su mueca de “hablamos-luego” o “te tengo-algo-que-decir. Le hice una seña de luego, una seña de espera, esperando lo mejor...Esperé un rato y dije: 

-Oye,Zamani, aquí nosotros no somos del Home Office. El Home Office se equivoca mucho, a lo mejor te podemos ayudar. 

Esperé más. Nada. Seguí esperando. 

-Zamani, oye, yo necesito ayudarte. Mira, no lo hago por el Refugee Council. Lo hago por mí. Por darle paz a mi vida. Me vine a ayudar, porque quiero ayudar a gente como tú. Pero no puedo ayudarte si no me dices el problema. 

Y por fin levantó la mirada. Me miró e hizo un gesto como diciendo “sí”, sí algo. Yo esperé. Pensé; "mirándome no podría resistir el silencio", pero aguantó. Y yo no tuve más remedio sino procesar cuidadosamente su mirada, de pocos segundos, pero es muy intenso cuando tenemos solo un gesto para entender a alguien. Esa mirada de duda, esa mirada de pregunta y esa mirada de serás-tu-el-que me-va-a-entender? Una mirada de ya no puedo más.

Hasta que por fin sacó un montón de papeles, documentos, y cosas varias que tenía en los bolsillos. Estaban arrugados, doblados, manchados de café. Tomé los papeles y vi notificaciones del Home Office sobre vivienda, sobre su “liability to detention”, es decir, que lo pueden meter preso sin razón, sólo porque ha pedido asilo, pues el asilo es un derecho que tienes, pero al pedir tu derecho te pueden meter preso, así de vulgar, casi como Chávez que amenazaba con meter presa a la gente en los programas de TV.  Pues aquí, son más civilizados, tienen jueces con pelucas blancas, y lo que hacen es mandarte una cartica con tu nombre y dirección presente, y los jueces con pelucas no cuestionan la legalidad de meterte preso sin haber cometido un delito. Civilizados, nada. Bestias insensibes. Esta cartica no es precisamente muy reconfortante cuando te la entregan al infomarte que van a analizar tu petición de asilo y tienen que esperar por meses o años. Años en el limbo, mejor el limbo que en el infierno, pero con la amenaza del infierno y para hacerlo más placentero, años donde puedes ser detenidos así, sin más, por una puntada de culo, como dirían en Venezuela. 

Esa carta, ese papel que decía liability to detention siempre se me aparecía entre los documentos de los refugiados. Era uno más. No era nunca relevante. Y sin embargo estaba allí gritándome de las injusticias del mundo. Soy venezolano, igual que Carlos, igual que Sofía, igual que Arturo, mi pana científico metido a empresario. Pero tengo algo diferente, algo de lo que no tengo mérito. Soy también italiano, mis padres lo son. Así lo dice la constitución italiana, articulo 4. A todos ellos les toca esta carta y a mi no. Yo si voy preso es por matar a alguien, por imbécil que sea. O voy preso por escribir estos cuentos, quien sabe. O porque algún cuento ofende a uno de estos de peluca blanca e inglés decimonónico.  Y ahora, saliéndonos de la Unión Europea los europeos sienten escalofríos porque su estatus es inseguro, y mira a Zamani, su estatus es detenible y deportable al infierno y no a los horrores de París o a las torturas de la dolce vita. 

Seguí mirando papeles. Leí sobre artículos sobre su madre y su padre,  cuando fueron detenidos. Leí una petición de Amnistía internacional por su padre. Leí sobre sus sonoros casos, años atrás. También leí y aprendí sobre su infancia, al leer testimonios de los familiares de sus padres, en Canadá y  Alemania. Y conseguí el que era el que le creaba este estado de enajenación. “Su petición de asilo ha sido denegada”, decía.

Pocas frases después seguía “no hay razones fundamentadas para sus miedos” pues “la experiencia sufrida por su madre, padre y hermano mayor no tienen que ver con sus circunstancias...” lo cual, por cierto, es correcto, si lo analiza una computadora programada por un robot extraterráqueo. Cómo van a decir que su miedo es infundado porque a él no lo mataron y por lo tanto no le quieren hacer nada? Qué clase de razonamiento es ese? Malparidos!

Hay que comer muchos raviolis enlatados para pensar así. O será efecto del vinagre en las papas fritas? Seguí mirando y no era fácil reconstruir el fajo de papeles de su petición de asilo pues estaba doblado, requetedoblado, y desengrapado. Lleno de palabras pequeñitas, manuscritas en el alfabeto persa, subrayados, marcas de puños, y por supuesto, estaba roto y pegado con celotape, de todo, y con todo tipo de marcas que hacían pensar que el documento estuvo en mesas, piso, papelera, basurero. Los papeles fueron pisoteados, escupidos, insultados. Cuando esas hojas de papel salieron de la fábrica, no sabían que iban a pasar por tantos vejámenes. Las hojas casi que preguntaban qué decían esas letras para enloquecer tanto a alguien. 

-Vienes para resolver este problema, me imagino? Le dije mostrándole el documento donde le negaban el asilo. 

Por fin se movió Zamani. Me miró a los ojos y algo en su mirada decía menos mal que entiendes, al fin, alguien que entiende. Pero justo en ese momento mágico apareció la gerente, Debby. Primero se apareció otra vez por la ventanilla, y luego, rompiendo la costumbre y los protocolos, abrió la puerta. 

-Fabrizio, disculpa, pero podemos hablar un minuto? 

Yo miré a Zimani para ver si tenía cara de partirle la cara a la gerente, que hubiera sido conveniente para mí, así aprende de una vez a no interrumpir las sesiones de este tipo. Pero desafortunadamene Zimani era más razonable que Debby, así que la gerente pudo conservar intactos todos los dientes, su dentadura de dentista y los huesos de la mandíbula un poco desencajada. Volvía a mirar a la gerente y le dije: 

-Claro Debby, en un momento voy- le dije, sabiendo que no tenía la menor intención de interrumpir la sesión con Zimani. 

-Si puedes ahora, mejor- me dijo con cara de “otra-vez-Fabrizio-haces-lo-que-te-da-la-gana

Zimani me miró y de alguna manera vió mi cara de “esta-cabrona-no-entiende-nada"

-Ingleses -sentenció Zimani. 

Victoria, pensé. “Este Zimani es más razonable que la jefa”, como es de esperarse. Así que le hice una seña a Zimani y le pedí que esperara un momento. Me dirigí hacia la puerta y caminé hacia afuera de la habitación. De reojo vi a Zimani que decía no con la cabeza y repitió: 

-Ingleses. 

Cuando salimos Debby, con su sonrisa críptica, típico rictus, mostrando su dentadura de dentista, empezó su sermón. 

-Fabrizio, hay procedimientos. Y hoy hay circunstancias especiales. Tenemos muchos usuarios así que tienes que ser veloz con esté señor. 

-No te preocupes, Debby, seré lo más veloz posible- dije sabiendo que no lo iba a hacer y que me metería en problemas. 

-Cual es su problema? Me preguntó. 

-Le negaron el asilo. 

-Ah, algo sencillo. -dijo con cara de quien ya sabe todo- Lo refieres a la oficina de migraciones para el regreso a su país y así puede hacer su sección 4- La sección 4 era una jerga burocrática que indicaba una solicitud de apoyo económico con vales para el supermercado y de vivienda temporal mientras se organiza su retorno. 

-Ah, la sección 4, que buena idea. - le dije sabiendo que la idea era mala, y mucho menos la prioridad  de Zamani, aunque a nadie le importe eso. Por no decir nada de que si lo primero que le hubiese dicho a Zimani es que la solución era empaquetar, nada menos que empaquetar sus cosas, e irse a Irán, buscarse algunos amiguitos entre los Ayatolas, en fin, que si le recomendaba eso, lo que habría que empaquetar serían los trozos de mi cabeza, cráneo por un lado y sesos por otro, para meterlos junto a mi ataúd que mandarían de vuelta a Venezuela. 

-Recuerda de no tardarte mucho – me dijo Debby, tal lejos de lo que yo pensaba y de lo que quería decirle: "claro, cabrona". 

Y ya iba a abrir la puerta para volver a la habitación con Zamani cuando Debby me recalcó: 

-Y recuerda que tienes que seguir los procedimientos, Fabrizio. Necesitas el guardia de seguridad, es una persona peligrosa y tenemos información confidencial que es intransigente.- y me dio una palmadita y me guiñó el ojo como diciéndome “eres-un-niño-tremendo-y-te-tenemos-que-cuidar"

-Ya se calmó, no te preocupes -respondí- y no creo que sea demasiado intransigente – le dije, sin agregar, porque aún no lo sabía,  que más intransigente fue ella al interrumpir la sesión para decirme que me dé prisa mientras que él, que teme por su vida y vió morir a su madre asesinada, aceptó que interrumpiéramos la sesión. Y de pronto me quedé ensimismado con la facilidad con la que lo calificaba de intransigente. Y es que me pasa que a veces me quedo enfrascado en las cosas que dice la gente, sobre todo cuando son muy tontas y no puedo responder. Y me decía, “y tu, cabrona, de verdad eres tan tolerante y abierta a la negociación, lo llamas intransigente y tú me interrumpiste un montón de veces, qué harías tu si se te pincha la bicicleta de mierda, y a este lo criticas por intransigente, ve a freír mono como decimos en Venezuela".

-Estás seguro? -Me dijo ella. 

-Seguro de qué -mis pensamientos me hicieron perder el hilo. 

-De que va a ser, Fabrizio, de que se calmó. 

-Ah, claro, sí. Estoy completamente seguro–dije, sin estar seguro para nada, pero a toda costa tenía que evitar tener un guardia de seguridad metido allí: hubiera destruido la atmósfera que había apenas logrado construir. 

Por fin volví a la habitación donde estaba Zamani. Qué alivio. Me senté. Tomé aire. De verdad que estaba echando de menos las venas salidas, y los codos clavados en la mesa de Zamani. Mejor que aquella loca con su institucionalidad inservible que me obligaba a ser hipócrita. 

-Qué quería tu jefa? Dijo Zamani. 

-Nada. No tiene que ver contigo, no te preocupes. Es que tenemos un problema con las alarmas, no te preocupes. -le mentí. Por supuesto que no le iba a decir que a ella no le gusta que resolvamos los problemas de acceso a la justicia. 

Tomé en mis manos el manojo de papeles que en algún momento fueron la respuesta a su petición de asilo. Yo ya me imaginaba, porque era frecuente que fuera así, que su problema era que el abogado no lo quería seguir representando y él quería que lo hiciera. La lógica en este país era muy sencilla. Los abogados son pagados por el mismísimo Home Office, y la condición para ser pagados es que ganen el 50% de los casos o más ante una corte de apelación. Esto para decirlo en anglosajón, porque en venezolano somos más prolíficos explicando esto que, en fin, es como una especie de apuesta entre el Home Office y el abogado, y en esta apuesta el Home Office dice algo así como: 

-Oye abogado, ven acá, que aquí hay pa los dos. Si me ganas la mitad de las veces, te pago por todas; si pierdes, te quedas sin contrato, te buscas otro trabajo y escribes cuenticos con Fabrizio, que nadie lee, o se ponen juntos a cantar rancheras en el metro de Londres. Estamos claros, no? 

-OK, dice el abogado que tiene una hipoteca que pagar, además de las dentaduras de dentista para sus hijos. 

Bueno, la idea de la apuesta no es mala. Ha permitido al capitalismo anglosajón sobrevivir a todos sus errores, pero estamos en Inglaterra, y esto no hay que olvidarlo jamás: siempre hay una letra pequeña y la letra pequeña es lo único que cuenta. Así que el Home Office para pagar su apuesta dice, otra vez en buen criollo venezolano: 

“Bueno, guevón, no te voy a pagar por todo tu trabajo, sino solo por una cantidad de horas pequeñitas, no mucho, no te la voy a poner manguangua (demasiado fácil), y si te pones a investigar y a ponerte con intérpretes y demás no te pago nada de esos lujos, ni siquiera el lujo de entender de qué tiene que decir tu víctima a través de alguien que hable su lengua, ni que fuera pendejo, ni para que decirte que si te pones a averiguar exactamente por qué todo lo que nos inventamos es mentira, pues lo pones de tu bolsillo y tu sales perdiendo. Bueno así. Mitad pa ti, mitad pa mi, que de este cochino vivimos los dos". 

Le pagan una cantidad de horas. Y si el caso se puede apelar con un "copiar y pegar" de otros casos, tiene chance. Si no, no. Así que los abogados, que creen la justicia y son demócratas y defienden a los derechos humanos, terminan más comprometidos en flotar con dinero fácil que estar salvando vidas a su coste.  Así que constatando la realidad, le pregunté a Zamani:

-Así que quieres que te busquemos un abogado o quieres que hablemos con el tuyo? 

-Por favor- me dijo. Como si fuera una respuesta clara. 

-No te preocupes. Lo primero será llamar a tu abogado.- lo cual vale para cualquier cosa que él hubiese pensado que era obvio. 

Llamé a su abogado. Atendió la recepcionista de la firma legal. Después de las formalidades de la presentaciones me dice. 

-Oiga, disculpe, pero qué nacionalidad es nuestro cliente. 

-Iraní.
-A no, no se puede.
-Como que no, por que.
-Tengo instrucciones. No iraníes.

-Bueno, entiendo eso. - por spuesto que hay mucho que entender. Es una discriminación descarada y confirma que si en este país no prohiben joder de alguna manera, entonces de esa manera es que te van a joder. No se analizan las peticiones de asilo por mérito, sino que se discrimina por nacionalidad, vaya. 

-Puedo ayudarlo con algo más.- me dijo con el típico tonito de no-moleste-más-con-este-asunto y prepárese que le tranco el teléfono sin que ud pueda decir que no le dí la cortéz oportunidad de hablar de otra cosa. Típico. 

Sí, entiendo, no iraníes. Pero esta persona era su cliente. Esperó por años y contaba con sus servicios de abogados y de pronto lo abandonan sin más. No tiene detalles. 

-Bueno un abogado revisó su caso y recibió su carta. Su petición de asilo carece de evidencias, es débil. 

-Y cómo lo sabes si eres una secretaria sin entrenamiento legal? Provocaba preguntarle. Pero no valía la pena. Ya hacía tiempo que conocía la explicación. Es muy simple. Si su cliente es iraquí, su petición de asilo será aceptada, si era iraní no. En Alemania los jueces pensaban lo contrario que los jueces ingleses. Pero había que seguir. 

-Y cómo sabe que recibió todo si no sabe de quien le hablo, disculpe. - Le pregunté. 
-Por favor, nombre del cliente? 
-Nosequé Zamani.
-Fecha de nacimiento 

Y seguimos el típico protocolo de seguridad. 

-Bueno, ya le dije, aquí dice que recibió su información. Su caso no es fuerte. Para nosotros el caso está cerrado, lo siento. 

-I am sorry.- repetía Zamani, en su silla. Por el tono que usaba me hacía pensar que él también se mofa de lo tanto que dicen lo siento cuando no sienten nada, sobre todo cuando el tono de voz solo indican que sienten un gran desprecio y desinterés. Yo por mi parte tenía ganas de gritarle que son unos peseteros, que no tienen ningún compromiso con la justicia, pero mi rabia solo me podría conducir a que levantaran una queja contra mí, pero arriesgar la queja a lo mejor valía la pena, pude haber pensado, porque así al menos Zamani sabría que estaba de su parte. 

-Los ingleses son así, ya sé, me imagino lo que dice. - dijo Zamani, adivinando acertadamete las respuestas de la recepcionista. 

Y empecé a darme cuenta que Zamani conocía más de lo que parecía el país en el que vivimos. Por una parte quería decirle que hay ingleses que no son así, como Sue. Pero mayor era la tentación de gritarle a esa secretaria para que él entendiera que estaba de su parte. Pero a este punto podría pensar  que el podía entender que no me queda más remedio que mantener las formas profesionales, como que si ser profesional tuviera algo que ver con ser indiferente. Y apenas tranqué el teléfono me comentó Zamani: 

-Bueno, ahora llegó la hora de buscar otro abogado, uno que crea en la justicia. 

Yo de pronto confirmé que estaba frente a alguien de gran inteligencia y no una simple bestia salvaje, por más enloquecido que fuera apedrear nuestras ventanas antibalas. Con razón cuando le pregunté si llamo a su abogado o busco otro me dijo, simplemente, “por favor”. Ya él sabía de antemano cuál era el libreto. Qué alivio, por fin. Ahora iba a buscar el teléfono en mi libreta de un abogado iraní, de cultura italiana, que había estudiado en la misma universidad de mi papá, la Sapienza. Le quería comentar a Zamani acerca de este abogado, con quien por cierto disfrutaba hablar, y que me premiaba por permitirle habar italiano tomando más casos de iraníes de lo que era razonable. Pero la suerte suele ser escasa y en ese momento, justo allí, apareció Deby otra vez por la ventanilla. Otra vez con sus muecas de “te-tengo-que-decir-algo" y movimientos circulares de la mano, a modo de robot. 

-Allí está tu jefa otra vez. - dijo Zamani, y dio un puño en la mesa. 
-Voy a llamar un abogado que creo que te podría ayudar.- 
-Prefiero que llames a este otro, - y sacó una tarjeta. 

Qué gran casualidad. Era el mismo abogado. Gran casualidad, nada; ni que hubiera muchos abogados iraníes comprometidos y en esta región, además. Empecé a discar el número de teléfono, pero la Debby, la jefa, entró con el guardia de seguridad. 

-Estás bien, todo bien? 
-Sí todo bien. 
-Por favor puedes venir un momento. 
-Si claro, apenas termino, que estoy en el teléfono con alguien 
-Puedes llamarlo luego. 

-No, no puedo, estoy esperando porque está buscando unos documentos para mi, está en línea y me pidió que esperara- le menti, mientras sostenía el teléfono bien pegado del oído para que no se oyera el pitido de ocupado. 

-Ok, te espero, dijo la jefa. Y se fue. 
- Qué crees que quiere,- me pregunto Zamani apenas se cerró la puerta. 
-Nada. Quiere que me apure y tuvo miedo del puñetazo. Pensó que me ibas a matar, dije bromeando. 
-Qué puedo hacer para que te dé más tiempo. 
-Rellenar una planilla del sección 4. - Y se la dí. 

Como el abogado no contestó porque el teléfono seguía ocupado, salí a hablar con la jefa. Le expliqué que después de muchas preguntas de su parte, Zamani había decidido aplicar a la seccion 4. La jefa me felicitó. Volví con Zamani. 

-Tenemos unos minutos más, Zamani. - Le dije.

Volví a discar el teléfono y me dí cuenta que había algo absurdo en la situación. Cómo es posible que Zamani tuviera este contacto y me diera el número de teléfono y él no hubiera llamado o se hubiese aparecido en la oficina. Pensé que este era un tipo inteligente, no parecía tímido para nada, de hecho llegaba vuelto Hulk en cada sitio a donde iba, y a mí no me cuadraba. 

-Quieres hablar tu una vez que respondan? Le pregunté. 

-No!!! Por favor! Si ese es el problema, la secretaria no me deja hablar con el abogado. 

Repentinamente recordé que mi papá decía algo así como que tener un amigo ministro era tener un buen contacto, pero de poco servía si no te hacías amigo de su secretaria. Y aquí estaba Zamani dándome evidencias que la intuición sociológica de mi padre era correcta. Esperé al teléfono, me atendió la famosa secretaria, que detentaba las llaves del poder, hasta que por fin hablé con Izadi, el abogado iraní. Tuvimos una relativamente larga conversación como saludo, sin referirnos a la persona que le quería referir. Simplemente a Izadi le gustaba conversar en italiano, de lo que fuera. Pero cuando le comenté de Zamaní, me cayó un baño de agua helada encima, que por suerte fue en un idioma que Zamani no entendía. 

-“Me ne vado” Me voy. Me mudo de país. Me voy a Canadá donde tengo familia y donde no tengo que pasar por estas cosas que pasan aquí. 

-Me alegro por ti, Izadi. He oido cosas muy buenas de Canadá. Muchos amigos viven allí y adoran ese país. Suerte. "In bocca al lupo". 

-Oye por qué me llamabas? 

-Quería referirte a un cliente iraní. Típico caso donde los abogados aparentan representar a sus clientes, pero cuando llega la hora de ir a tribunal, le dicen que su causa es débil. 

-No te voy a poder tomar el cliente, lo siento. Mi ida es inminente. 

-Me lo imaginé Iza, pero no podrás dejarle el caso a uno de tus colegas. 

-Imposible, ya les dejé un montón de casos que ellos creen perdidos. Mis clientes quedarán desamparados. 

-Bueno, Iza lo siento por mi usuario, le diré. Otra vez, in bocca al lupo, suerte 

Ahora llegaba la hora de hablar con Zamani. Traté de tomar fuerza. Cómo le digo que el abogado amigable con los iraníes y que además habla persa se va del país. Ya me disponía a hablar con Zamani pero Debby, la gerente se apareció otra vez. 

-Fabrizio, podemos hablar un minuto? 
-Bien, déjame un segundo con Zamani y voy afuera y hablamos. 

Salió y Zamani vino en mi rescate, del modo más insospechado. Por un segundo pensé que había entendido la conversación, pero vi que no, que simplemnte me estaba ayudando a controlar a mi jefa. 

-Oye Fabrizio, -dijo Zamani- dile que me voy a suicidar. 

-Cómo así? Te vas a suicidar? 

-No seas tonto. Entiéndeme. Si le dices que te dije que me voy a suicidar tenemos más tiempo para hablar. Vas a tener que seguir otro protocolo. Tu arreglas todo en las notas y ya. Y mientras estoy aquí seguimos con lo del abogado. 

-Ok, me parece una buena idea- le dije, con admiración a su inteligencia. 

Pero aunque la idea fuera buena, lamentablemente podría ocurrir que de verdad que a Zamani se le podría ocurrir suicidarse si se enterara que el abogado que representa su esperanza se va del país. Era irónico que el “monstruo Zamani” me ayudaba a controlar la personificación de la burocracia aparentando decir algo que probablemente pensaría cuando le dijera lo que tenía que decir. Salí a hablar con la jefa enredado con mil ideas en la cabeza.

-Hola Debby, tengo una situación delicada. -Dije

-Fabrizio, tienes que terminar. Tienes que ser profesional. no puede ser que te tardes tanto llenando una planilla del section 4. Yo sé que eres una buena personal pero hay que tomar distancias. Otra vez me miraba con carita de Fabrizio eres un niño tremendo pero te tenemos que controlar.

-Debby, me acaba de decir que se va a suicidar. 

-Bueno ya sabes lo que le tienes que decir, ve y asegúrate de referirlo adecuadamente para que atiendan su salud mental. Y no te olvides de escribir tus notas con mucha atención. 

Seguro- y fui a hablar con Zamani. Entré a hablar con él e inmediatamente me preguntó:

-Ya te quitaste de encima a esa monstruo? 

-Por un rato. Se supone que te tengo que referir a los servicios medicos especializados y alertar a las otras organizaciones sobre tus intenciones. 

-Y se te olvidó que tienes que decirme que tienes que romper mi expectativa de confidencialidad porque tienes que proteger una vida. 

-Exacto. 

Le expliqué todo a Zamani sobre el abogado. Pobre. Seguimos el protocolo, lo referí por supuesto. Quedamos en que volvería para tratar de referirlo a unos abogados de Londres. El me dijo que conocía abogados en Londres. Y Zamani se fue tranquilo. Muy tranquilo. Yo estaba contento porque me ayudó a controlar a Debby, que resultó ser mucho más complicada. 

Y pocas semanas después la jefa me llamó a su oficina. Tenía una cara indescifrable. Y me dijo. 

-Tengo dos noticias, una buena y una mala. Empezamos con la mala. 
-OK 
-Zamani se suicidó 
-Y la buena? 

-Te estuvieron investigando. Hiciste todo lo correcto. Lo referiste, alertaste a las autoridades competentes, tomaste nota de la ley de protección de la información y tus notas son perfectas. Todo muy profesional. 

-Gracias.