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mercoledì 28 giugno 2023

L’impostore e la sua farsa

 


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Ricordo ancora quel pomeriggio di luglio quando uscendo dal lavoro, cominciai a riflettere sulla mia farsa e di come fossi convinto che sarei stato scoperto di lì a breve, forse durante quello stesso fine settimana. Quello che ancora non potevo immaginare era in che tipo di casino mi fossi messo, e ancora meno quanto fosse grande. Avevo un’idea di ciò che era ovvio, ovvero che mi avrebbero scoperto, e dato che avevo anche mentito per ottenere quel lavoro, avrei pagato con la più grande delle umiliazioni: il disonore.


Ricordo che quel pomeriggio di luglio camminavo per strada come se stessi fuori di me, mentre pensavo a come ero finito in quel guaio, proprio io, che soffro d’ansia e mi angoscio per ogni cosa, perfino quando vedo un film dove il protagonista rischia di non essere capito e finisce per litigare con la moglie. Questi film mi danno le palpitazioni e devo spegnere il televisore per evitare di sentirmi così angosciato. In quel pomeriggio di luglio, sentendo che le mie bugie sarebbero venute presto alla luce, mi venne un forte dolore al petto che mi lasciò quasi senza fiato. Per prima cosa sentii le palpitazioni, poi la nausea che precede l’infarto, come mi succede sempre da quando sono diventato ipocondriaco; infine sentii che il cuore mi fuoriusciva dal petto e mi sembrò quasi di non poter più respirare. Per calmarmi, provai a sforzarmi per accettare l’idea che quella farsa avrebbe potuto raggiungere la fine, e l’unica cosa che mi rimaneva da fare era ragionare.


Cuand’è che sono diventato un commediante?, pensavo. Conoscevo la risposta: fu il giorno che ascoltai parlare l’assessore, il cinese, quel responsabile dei rifugiati che si atteggiava come se sapesse tutto lui. Effettivamente fu proprio lui a convincermi che una farsa fosse l’unica via percorribile. Quindi non mi rimaneva altra cosa che diventare un impostore, anche solo un pochino, insomma un commediante. Mi sforzavo di ricordare se quel giorno ci fosse il sole, cosa rara in Inghilterra, o se stesse piovigginando come al solito. Ma di cosa potevo rendermi conto, di un bel niente! Ero cosi assorto negli incubi che facevo ad occhi aperti che mi dimenticai da quale lato provenissero le macchine e così, nell’attraversare la strada, quasi vengo investito da un furgone che arrivava dal lato corretto, dal cui abitacolo fuoriuscirono immediatamente delle parole di insulto che non avevano niente a che vedere con le parolacce che diciamo in Venezuela. Dato che quell’uomo alla guida non riuscì a proferirne neanche una che fosse così azzeccata da tirarmi fuori dai miei ragionamenti, proseguii sui miei passi, perso tra i miei pensieri. Forse se avesse minacciato di uccidermi, mi avrebbe fornito una buona soluzione. Non è che io sia uno stravagante per vocazione, è ciò che mi succede ad esserlo, ed io semplicemente mi adatto. Tutti coloro che mi conoscono sanno che di fondo sono una persona corretta, o per meglio dire lo sono stato, con qualche piccola eccentricità quà e là, ma niente di grave.


Tutto cominciò il giorno in cui parlai col cinese, anche se ad essere sinceri neanche era un cinese, anche lui era un altro commediante, lui stesso me lo aveva detto, però questo lo racconterò in un'altra storia. Questo cinese, che non era cinese in realtà, mi aveva detto che lì in Inghilterra, non è importante quello che sai fare o ciò che hai fatto e studiato nel tuo paese di origine. Cosi mi disse, ed io in qualche modo avevo cominciato a capirlo, non bene come lo capisco adesso dopo aver vissuto qui per tanti anni, ma come qualcuno che ha già superato la fase iniziale, dove sei come un turista e ti sembra che tutto vada più o meno bene.


Il percorso dall’ufficio alla stazione non era lungo, però a me sembrò che durasse in eterno, tra attacchi ipocondriaci, un incidente d’auto a malapena evitato, insulti britannici, incubi ad occhi aperti, ricordi sparsi della conversazione con il cinese e gli sguardi inquisitori dei passanti che non potevano sapere nulla della mia farsa, ma sembravano guardarmi con sospetto. Continuavo ad infilare la mano in tasca e a toccare il cellulare, per controllare che fosse ancora lì e che magari non mi fossi immaginato tutto. Sapevo che avrebbe potuto suonare in qualsiasi momento, rovinando ogni cosa. La mia incapacità di risolvere il problema mi avrebbe tradito e la verità sarebbe venuta a galla. Ma chi me l’ha fatto fare di accettare un lavoro che non posso svolgere perché non ne ho le competenze? Chi altro, se non io, può mettersi in un guaio così? Che penserebbero i miei compari in Venezuela, se sapessero in che casino mi sono messo qui in Inghilterra? Meglio che non lo sappiano.


Il cinese aveva ragione ma io non avevo ancora vissuto in questo paese così a lungo da comprendere a pieno la profondità delle sue affermazioni, però avevo sofferto abbastanza a lungo per capire che aveva ragione e quindi dovevo continuare con la mia commedia se volevo progredire ed andare avanti, altrimenti avrei continuato a fare lavoretti poco qualificati, pagati il minimo e così via, quindi non avevo altra scelta. Ciò che avevo imparato in Venezuela non mi serviva lì, quindi dovetti reinventarmi e fui costretto a mentire. La verità è che chiunque abbia un minimo di cervello, a pensarci bene, sarebbe disposto a dire una piccola bugia, se quest’ultima non fosse completamente aliena alla realtà, per esempio dichiarare di conoscere un programma specifico per computer, quando in realtà ne conosce un altro simile. Una piccola bugia, insomma. Ma la menzogna che avrei detto io era la più grande tra tutte quelle che si possono dire in Inghilterra: avrei dichiarato di essere in grado di capire e parlare l’inglese. Peggio di così non si può, ma io feci in modo che fosse ancora peggio di così, com’era ovvio.


Vorrei chiarire che vi era un certo tipo di inglese che riuscivo a capire, ovvero quello lento, colto e pieno di pause parlato dagli stranieri che lo hanno imparato nelle scuole o all’università, niente a che vedere con l’inglese vivace, veloce e pieno di inflessioni parlato dagli autoctoni. Capivo abbastanza bene anche l’inglese scritto, quello dei testi letterari o scientifici, ma come potevo comprendere l’inglese dialettale dello Yorkshire, Lancaster o Liverpool. Insomma, capivo solo l’inglese scolastico, ma con l’inglese “autentico” facevo una gran fatica. Maledissi la mia educazione nel collegio in Venezuela, dove facevamo solo due ore di inglese alla settimana e ci sembrava quasi una distrazione dalle molte ore dedicate alle materie “importanti” come chimica, fisica e via di seguito. L’unica cosa che imparai a scuola fu un po’ di grammatica, un po’ di ortografia e a superare gli esami. Un altro paio di mesi nel “Colegio Americano” mi diedero un po’ più di sicurezza e mi prefissai l’obiettivo di migliorare da autodidatta, vedendo film in inglese con i sottotitoli; qualcos’altro lo imparai all’università, quando ci assegnavano alcuni libri da leggere in inglese, ed io, dizionario alla mano, li leggevo ma senza prestare attenzione a come si pronunciassero quelle parole. Insomma, per farla breve, potevo leggere, scrivere qualcosa e dire qualche frase; potevo addirittura capire l’assessore cinese, che poi risultò essere vietnamita, quando parlava, o un tedesco o un russo parlando in inglese, ma non un madrelingua: quasi ogni frase pronunciata da un parlante nativo conteneva una o due parole che non riuscivo a decifrare, di solito proprio quelle che servivano di più a comprendere l’intero messaggio. Questo accadeva quando ero fortunato; spesso mi capitava di non capire assolutamente nulla, neanche dove finisse una parola e ne cominciasse un’altra. E fu così che quando riempii la domanda per un lavoro con il Refugee Council, ebbi la faccia tosta di dichiarare, nella sezione degli idiomi parlati, la mia padronanza tanto dello spagnolo quanto dell’inglese. Come avrei potuto fare altrimenti? Non potevo fare domanda per un lavoro in Inghilterra e dichiarare di non conoscere la lingua. Mi veniva da ridere al pensiero dell’impiegato delle risorse umane che si trovasse davanti ad una domanda di quel tipo. Cosa mai avrebbe potuto pensare? Ma guarda questo, vuole fare l’ingegnere e non sa né fare i calcoli ne’ le equazioni. Patetico.


Studiai con attenzione la descrizione delle mansioni e il profilo del candidato ideale, presi nota di tutte le possibili domande che avrebbero potuto farmi e mi misi a studiare tutte le parole chiave presenti, non nell’illusione di capire ogni domanda che mi sarebbe stata posta, cosa che ritenevo impossibile, ma per poter quantomeno formulare qualche idea che avesse un minimo di attinenza con il tema. Feci tutto ciò non perché mi sentissi particolarmente coraggioso, ma perché l’assessore cinese mi aveva detto di farlo, e neanche perché pensassi di ottenere quel lavoro, ma piuttosto per diventare più sicuro di me, imparando quelle parole nuove che mi sarebbero potute servire anche per altri colloqui. Il piano era chiaro: un po’ alla volta avrei migliorato il mio inglese e avrei potuto perfino ottenere un lavoro da portiere presso il British Refugee Council e da lì, piano piano, avrei potuto aspirare a un posto migliore, magari come consigliere per i rifugiati. Così inviai la mia candidatura per la posizione di portiere, cosa che mi sembrava assolutamente ragionevole.


Non avevo la minima idea di come avrei svolto quel lavoro senza avere la piena padronanza della lingua: potevo già immaginare situazioni surreali, in cui qualcuno mi chiedeva dove si trovasse la cassetta delle lettere ed io rispondevo in automatico: mi spiace, il sabato siamo chiusi. Che disastro. Per ora l’unica cosa importante era superare il colloquio; avrei pensato a tutto il resto a tempo debito. Così andai al colloquio e feci quello che potei, ma non lo superai e cominciai ad abituarmi a quelle risposte tutte uguali: siamo spiacenti di informarLa che per questa volta la sua candidatura non è stata selezionata… E come poteva essere diversamente? Però la perseveranza è una delle chiavi del trionfo, quindi seguendo i consigli del cinese, chiesi che mi dessero un feedback e cosi venni a scoprire che non c’entrava nulla il fatto che avessi capito poco o niente di ciò che mi era stato chiesto, ma il vero problema era la mia mancanza di esperienza come portiere in Inghilterra. Bisognava che avessi lavorato come portiere per almeno due anni, niente meno, tutto il resto non contava.


Qualche mese dopo apparve un altro annuncio del Refugee Council. Cercavano Project Workers, proprio così, con la maiuscola lo scrivono, e quando lessi la descrizione delle mansioni mi resi conto immediatamente che non avrei mai potuto svolgere quell’impiego. Si trattava di fornire appoggio ed assistenza ai richiedenti asilo in Inghilterra, e tutto era spiegato molto chiaramente, fin nei minimi dettagli, ed io leggendola cominciai ad immaginare cosa avrei potuto fare in tale posizione se solo avessi saputo bene la lingua. Un giorno succederà, pensai. Ad ogni modo decisi di inviare la mia candidatura, col solito scopo di andare al colloquio, fare pratica con le domande e le risposte e così magari, un giorno, essere scelto per lavorare come portiere, se mai un’altra occasione fosse sorta. Con mia grande sorpresa, mi chiamarono per un colloquio. La mansione principale sarebbe stata quella di fare consulenza e dare appoggio ai rifugiati … che responsabilità! Ci pensai a lungo e alla fine decisi di provare, così andai a quell’incontro con il terrore di fare una pessima figura, ma ci andai preparato, anzi preparatissimo. Andai perfino a trovare l’assessore cinese, il quale si congratulò con me e mi insegnò una parola nuova, “bold”, che significa audace. Il mondo è di chi osa, mi disse il cinese. Ad ogni modo avrei dovuto aspettare ancora due anni prima di ottenere un lavoro di quel tipo, ma da qualche parte si dovrà pur cominciare. Riempii tutte le sezioni del foglio per la mia candidatura, e di nuovo mentii, non solamente riguardo la mia conoscenza dell’inglese, ma dichiarai anche di avere avuto esperienze lavorative con richiedenti asilo in Inghilterra. Questa dichiarazione non era del tutto falsa, dato che in effetti avevo fatto del volontariato per un’organizzazione che aiutava i rifugiati, un po’ anche per fare pratica con la lingua, ma di fatto l’unica cosa che facevo lì era lavare i piatti, e lo feci solo per due mesi, un giorno a settimana, mezz’ora al giorno … insomma, ciò che stavo dichiarando era un’esagerazione della realtà. Ad ogni modo arrivai alla conclusione che mentire non era un problema perché tanto non mi avrebbero scelto.


Il giorno del colloquio mi sedetti davanti a tre selezionatori. Uno di loro era arabo, che fortuna! Lui lo potevo capire, ma gli altri due no. Delle nove domande che mi fecero ne capii solo tre, ma mi aiutai con le parole chiave che avevo imparato e la conoscenza perfetta delle mansioni che avrei dovuto svolgere e che avevo studiato a fondo su Internet che, a quei tempi, era ancora una novità. Non appena arrivai al colloquio cominciai immediatamente a mettere in pratica tutte le tecniche istrioniche che avevo imparato al corso di teatro quando ancora facevo il collegio in Venezuela: per cominciare, dissi ai miei selezionatori che avevo un fastidio alle orecchie in quanto ero in convalescenza da una rara malattia tropicale, ma aggiunsi che non c’era motivo di preoccuparsi, che non era nulla di grave, ma che se avessero avuto la cortesia di parlare piano avrei potuto capire senz’altro le loro domande, e fu così che non solo riuscii a farli parlare lentamente, quasi come se potessi leggere ciò che dicevano nei sottotitoli, ma anche a fargli ripetere più di una volta le domande che facevo fatica a capire. Quando il colloquio terminò, me ne tornai a casa prendendo lo stesso treno che mesi dopo avrei preso in quel pomeriggio di luglio, quando cominciai a riflettere su tutto l’accaduto e a ricostruire tutta questa vicenda. Pensai che quello era stato il primo colloquio che avevo fatto per un lavoro serio, ma avevo mentito spudoratamente e mi venne da ridere. Continuavo a pensare a quanto ero stato folle ad andare a quel colloquio senza neanche parlare bene l’inglese, e non riuscivo più a smettere di ridere. Poche ore dopo, ricevo una telefonata.


Dall’altro lato della linea una voce, che non riconoscevo, diceva di chiamare per conto del Refugee Council. Mi resi conto che era uno dei selezionatori, il signore arabo per essere precisi. Facevo fatica a capire quello che mi diceva, però mi sembrò che disse che mi volevano assumere. Dio mio, non potevo crederci! Eppure non vi era alcun dubbio: mi stavano offrendo quel lavoro. Dissi che sarei andato a parlare con loro in persona, perché a causa del mio problema all’udito non riuscivo a capire chiaramente quello che mi stesse dicendo per telefono. Così, andai di persona e non ebbi più alcun dubbio: effettivamente, volevano darmi quel lavoro. Se ne avessi avuto la certezza quando eravamo ancora al telefono avrei potuto inventarmi una scusa per non accettare, però dato che non capivo nulla di ciò che mi veniva detto, avevo deciso di andare di persona, ed eccomi in quel guaio. Immediatamente gli dissi che non potevo accettare quel ruolo perché la mia comprensione dell’inglese era limitata, ma la mia sincerità non servì a nulla perché l’arabo mi disse che non era un problema e che presto sarei guarito; allora provai di nuovo ad essere onesto con lui e gli spiegai che il mio problema all’udito non era poi così grave, il vero ostacolo era che io non capivo l’inglese, al che l’uomo ribadì che se con la mia scarsa conoscenza dell’inglese ero riuscito a rispondere correttamente alle loro domande durante il colloquio, significava certamente che avevo le competenze per quel ruolo. Sembrava non ci fossero vie d’uscita: o parlavo in maniera ancora più esplicita, o accettavo quel lavoro. L’ultima opzione poteva essere solo quella di mettermi a urlare: No! No! No! Per poi uscire da lì correndo, con le mani nei capelli come se fossi impazzito. Ma non ne ebbi il coraggio e accettai, e fu così che cominciai a lavorare come consulente in un paese in cui non capivo quello che la gente diceva. Tutta la gavetta che avrei dovuto fare, cominciando dal ruolo di portiere, la saltai.


Dal giorno in cui mi nominarono Project Manager al giorno in cui avrei dovuto cominciare a lavorare passarono due settimane. Per poter svolgere il mio lavoro dovevo innanzitutto essere in grado di identificare quali fossero i problemi che i richiedenti asilo dovevano risolvere e poi, seguendo le procedure della legislazione britannica in merito ai rifugiati, proporre una soluzione e presentare il caso dinanzi alle organizzazioni governative, private oppure sostenute da donatori, di competenza. In quelle due settimane imparai quasi a memoria il manuale con tutte le regolamentazioni, leggi e procedure e i nomi di tutte le organizzazioni con le quali avrei dovuto collaborare. Il compito non sarebbe stato impossibile se avessi avuto una buona comprensione della lingua, ma io non capivo quasi niente e sarei stato un buono a nulla sia come portiere sia come project manager. Come ho già detto, capivo solo quelle persone che parlavano un inglese simile o peggiore del mio e così, facendo in modo di prolungare le mie difficoltà auditive il più a lungo possibile, divenni un impostore professionista.


Il signore arabo, che risultò essere il mio capo, mi diede un piano di formazione che praticamente consisteva nell’osservare ciò che un collega, già navigato nel settore, faceva. Partecipavo quindi a quegli incontri e ascoltavo i rifugiati che parlavano nella loro lingua, che all’epoca era di solito il kurdo o lingala, una lingua del Congo, mentre con l’utilizzo di un traduttore veniva riportato tutto in inglese, ed io qualcosa capivo. Dopodiché, di tutto ciò che seguiva, non capivo più un bel niente: il project worker diceva qualcosa in inglese, il messaggio veniva tradotto in kurdo e finalmente partivano varie telefonate nelle quali il project worker parlava della questione con altri impiegati di qualche altro ufficio, chissà quale. Se tutto andava bene, non mi veniva spiegato nulla; altrimenti, mi veniva spiegato qualcosa ed io mi limitavo a muovere ritmicamente la testa in segno di assenso, come se capissi ciò che mi veniva detto, nel tentativo di nascondere la mia farsa. Un disastro.


Passarono i giorni ed io, che di notte analizzavo ciò che poteva succedere di giorno a lavoro, cominciai pian piano a capirci qualcosa. Ma arrivò il giorno in cui, per la prima volta, avrei dovuto fare qualcosa da solo per telefono, da casa; e quel pomeriggio di luglio era, per l’appunto, il giorno in cui camminavo verso la stazione col cellulare in tasca. Ciò che dovevo fare era piuttosto semplice: se qualche poliziotto a Leeds o in qualche altra zona della nostra contea avesse incontrato una persona senza documenti e nella posizione di poter chiedere asilo, la polizia avrebbe dovuto chiamare al nostro numero. L’unica cosa che dovevo fare era quella di rispondere al telefono, chiamare un taxi scegliendo da una lista di nominativi e fornire all’autista l’indirizzo di dove si trovasse la persona in questione, in modo da poterla accompagnare agli uffici di Liverpool per fare la richiesta di asilo. La settimana successiva, di rientro al lavoro dopo il fine settimana, avrei dovuto verbalizzare il tutto, così da poter inviare il pagamento della corsa al tassista. Insomma, era una sciocchezza, almeno per qualcuno che capisse l’inglese, ovvio.


Quel giorno quindi, mentre camminavo verso la stazione tra attacchi più o meno reali d’infarto, incidenti stradali e quant’altro, cercavo di convincermi che chiamare un taxi non fosse poi un’impresa cosi impossibile per una persona che parlasse un po’ di inglese come me, anche se non lo capivo affatto. Insomma, l’unica cosa che dovevo fare era quella di fornire un indirizzo, tutto qua, e aspettare che mi venisse detto un si o un no, nella speranza che l’interlocutore dall’altro capo della linea non avesse voglia di scherzare con me, non si sa mai con questi inglesi e il loro macabro umorismo. Il problema vero sarebbe stato capire l’indirizzo che il poliziotto avrebbe dato a me, in quegli anni in cui ancora non esistevano né GPS né social media. Nasser, il mio capo, si prendeva gioco di me: ma certo che ce la farai, ci sono riuscito anch’ io prima di te! Mi ripeteva da quando ormai si era reso conto che in effetti non capivo molte cose, e neanche lui capiva tutto ma sicuramente più di me. Si formò tra noi una specie di solidarietà tra “cripto sordi”, ma io ero convinto che avrei avuto meno successo di lui ai suoi tempi, e che a me sarebbe sicuramente toccato uno di quei tassisti con l’accento fortissimo e uno di quei poliziotti che invece di parlare più lentamente quando qualcuno non capisce, si mettono ad urlare e a ripetere tutto sempre alla stessa velocità. Continuavo a pensare a come sarei riuscito a gestire quella situazione e ad affrontare tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate. Nasser mi aveva rassicurato dicendomi che, al massimo, avrei ricevuto una o due chiamate durante tutto il fine settimana, ma che molto probabilmente non avrebbe chiamato nessuno. Misi nuovamente la mano in tasca e toccai di nuovo il telefono. Era lì, e sapevo che a causa sua la mia farsa sarebbe stata scoperta.


Passò il venerdì e nessuno chiamò; passò il sabato e il telefono non squillò. Cominciavo a sentirmi molto fortunato, considerando che mi pagavano per ogni ora che passavo con questo telefono alla mano, ma domenica mattina, com’era da aspettarsi, il telefono suonò. Era l’alba ed io, preso dal panico, avvicinai l’apparecchio all’orecchio e dissi, con voce tremante: good afternoon. Dall’altro lato della linea qualcuno cominciò a dire frasi in inglese a raffica, che io sapevo essere in inglese solo perché mi trovavo in Inghilterra, ma che se fossero state pronunciate in un altro luogo della Terra, avrebbero potuto essere in qualunque altro idioma. Capii solo due parole: good morning, pronunciate con un tono ben marcato. Chiaramente avevo già commesso un errore e il mio interlocutore me lo stava facendo notare, tanto per non dimenticare che a volte deve andare tutto storto. Calmati, mi dissi, e chiedi l’indirizzo. Immediatamente, l’uomo alzò la voce ma senza esagerare, come prevede il decoro inglese, ed emise dei suoni che io non riuscii a decifrare, ma mi ero preparato a quell’eventualità. Avevo imparato come si diceva che la linea era disturbata e di parlare più lentamente. Era una frase che avevo provato a dire varie volte, ma questa volta non riuscii neanche a terminarla perché il poliziotto disse qualcosa che io non capii e immediatamente dopo riattaccò. Respirai profondamente. Richiamerà, pensai. Quando il telefono squillò, risposi e l’uomo disse di nuovo qualcosa che non capii. Probabilmente, voleva sapere se potevo sentirlo meglio, allora io dissi, ancora una volta, che la linea era disturbata e che doveva parlare più lentamente. Con un tono infastidito, ripetè qualcosa e riattaccò. Chiamò una terza volta, e poi una quarta, e così via. Ad un certo punto, quando la mia autostima era già stata completamente distrutta ed ero in preda al panico, successe qualcosa. Pensai che forse la persona dall’altro lato del telefono poteva essere qualcun altro, magari un assicuratore o un addetto delle pompe funebri, quindi all’ennesima chiamata risposi e chiesi chi era. Per la prima volta, udii una vera e propria raffica di maledizioni, seguita dalla conferma che si trattava proprio di un poliziotto che chiamava da Hull, una città situata nell’estrema parte orientale dell’Inghilterra. Non avevo mai sentito parlare di questa città, quindi pensai che si trattasse della polizia della lana, wool in inglese, ma non feci nessuna domanda a riguardo perché sicuramente mi avrebbe risposto, con tono sarcastico, che proprio di quello si occupava, di star dietro alle pecore. Ma il peggio doveva ancora arrivare: quando chiesi per conto di chi avrei dovuto chiamare un taxi, mi rispose che era per diciotto persone. Esattamente così, diciotto persone, cioè avrei dovuto coordinare più di un taxi. Mi diede l’indirizzo e quando mi disse, lettera per lettera, il nome della città, scoprii che esisteva un luogo chiamato Hull. Dopo aver riattaccato, mi precipitai a cercarlo sulla cartina geografica, che a quei tempi ancora bisognava inventare Google Maps, e fu una vera impresa trovarlo ma ci riuscii e mi accorsi che non era affatto nelle vicinanze, ma situato estremamente ad est dell’Inghilterra, mentre Liverpool, dove bisognava portare quei rifugiati, era esattamente dalla parte opposta. Non che l’Inghilterra sia così grande, però una carovana di taxi sarebbe stata troppo costosa, e se l’avessi chiamata avrebbe sicuramente finito per azzerare tutti i fondi annuali del Refugee Council, o almeno così pensavo. Quindi dovevo trovare un’altra soluzione e pensai che le mie radici latine mi avrebbero aiutato, altro che quella rigidità britannica tanto osannata, di cui parlava sempre anche l’assessore cinese. Era ora di dimostrare quanto fossi creativo e capace di risolvere qualunque problema, e fu allora che mi venne in mente di affittare un pullman, anche se non avevo né i soldi né alcuna autorizzazione per poterlo fare. Chiunque abbia vissuto in Inghilterra sa che le cose in questo paese non funzionano così, e se mi trovassi nella stessa situazione oggi, neanche mi verrebbe in mente un’idea così stupida, però l’ignoranza e l’audacia vanno a braccetto e quindi ci provai. L’unico che possedevo erano un telefono e la mia capacità di persuasione, ed incredibilmente, ci riuscii. Il racconto completo di come feci sarebbe lungo quanto un romanzo di Tolstoy, anche se mi piacerebbe scriverlo un giorno, però sto già scrivendo un’altra storia, quella di una rifugiata venezuelana, e queste vicende sono solo un passatempo. Dunque, quando infine riuscii ad affittare quel pullman mi sentii orgoglioso di me stesso, anche se si era fatto quasi notte: tutte le amarezze del passato sembrarono addolcirsi e improvvisamente la mia vita aveva preso lo stesso sapore di un fondo di caffè, dove si deposita tutto lo zucchero, e mi ricordai con gratitudine, anche del mio amico, l’assessore cinese.


Dunque, il pullman era stato affittato e il giorno successivo avrei pensato a tutte le scartoffie burocratiche necessarie. Era costato meno dell’affitto di due taxi, quindi non solo avevo fatto risparmiare parecchi soldi al Council, ma avevo anche facilitato il lavoro della polizia di Hull, che non era stata costretta ad inviare una carovana di pattuglie per fare da scorta ai taxi. La mattina dopo uscii di casa presto, tanta era l’emozione di poter raccontare quest’ impresa vittoriosa al mio capo. In cammino verso l’ufficio feci attenzione mentre attraversavo la strada, perché adesso mi sembrava che vivere valesse davvero la pena, e pensai che la farsa che avevo inscenato per simulare la mia conoscenza dell’inglese era stata compensata dalle mia capacità di negoziazione, e così gli incubi che mi avevano perseguitato durante il fine settimana lasciarono posto a mille fantasie su come avrei raccontato quell’impresa. Il cinese aveva ragione, bastava fingere di avere delle competenze e far valere solo la propria audacia e professionalità. Quel fine settimana era stato come un corso intensivo di inglese, però alla fine avevo fatto risparmiare al Council parecchi soldi. Sarebbe arrivato anche il giorno in cui avrei finalmente cominciato a capire quello che mi veniva detto. Addirittura, pensai che all’assessore cinese era costato anche più tempo e fatica ottenere ciò che io avevo raggiunto così velocemente, e pensai al privilegio che avevo di provenire da una famiglia italiana colta, di aver studiato presso l’ ”Universidad Catolica” e di aver sempre avuto degli standard di vita alti. Per la prima volta da quando ero andato via dal mio paese, smisi di sentirmi come il povero immigrato che non capisce niente, ma piuttosto cominciai ad identificarmi come il depositario di una cultura millenaria, che finalmente prendeva possesso del suo posto in quella nuova società. Quei passi che avevo percorso con angoscia qualche giorno prima, li percorrevo adesso con orgoglio e soddisfazione.


Quando Nasser arrivò in ufficio, puntuale come sempre, gli raccontai la vicenda e si mise a ridere ma allo stesso tempo capii, dall’espressione sul suo volto, che non ne era affatto contento. Mi sentii un po’ confuso e pensai che forse, dato il suo background arabo, gli era difficile comprendere la mia maniera latina di risolvere i problemi, pensiero di cui, adesso che mi occupo di tagliare rametti d’uva e separarne gli acini, mi vergogno un po’. Mi disse che avrei dovuto parlarne col suo capo, Margot Cooper, che di solito arrivava sempre tardi in ufficio, ancora con la tuta da ginnastica addosso. Alle dieci, Margot arrivò e poco dopo uscì furiosa dal suo ufficio brandendo in una mano, come se fosse una bandiera, il foglio con la lista dei numeri di telefono dei taxi che io avrei dovuto chiamare. Urlando, disse: ma non ti hanno spiegato che devi usare questi taxi per andare a prendere i richiedenti asilo? Come al solito, capii ciò che diceva dai suoi gesti e da quel foglio che mi stava sventolando in faccia, ed anche da qualche parola chiave che riconobbi quà e là.


E fu da lì che cominciai a capire che il vero commediante, in questa storia, non ero io ma l’organizzazione per la quale lavoravo, a cui non importava nulla di fare le cose per bene, ma solo di farle secondo il protocollo, e a cui non interessava affatto ciò che una persona capisse ma solo ciò che dicesse, e che non aveva a cuore il successo delle proprie azioni, ma solo le procedure. L’unica maniera che avevo per potermi integrare con i miei collegi in quell’ufficio era quella di lasciarmi corrompere da quel sistema, cosa che in un principio feci solo in parte, e poi smisi di fare del tutto, ma questa è un’altra storia.

 

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sabato 24 giugno 2023

Celinne (It)

Presto la versione elettronica della 'raccolta di racconti del bloody migrant' sarà disponibile solo su Kindle




Non avrei mai immaginato che il veleno del serpente, dopo molti anni, si sarebbe manifestato in modi cosi imprevedibili.

Quel giorno eravamo  fuori dall’ufficio, durante la pausa pranzo. Eravamo seduti vicino all’uscita posteriore, davanti al parcheggio, a ridosso dell’autostrada. Deborah stava fumando una sigaretta. Quella era proprio l’autostrada che avevo percorso la prima volta che arrivai in Yorkshire molti anni prima, senza sapere che sarei finito a lavorare a Leeds, una città che sarebbe poi divenuta la mia residenza per molti anni.

Quella mattina, Deborah mi sussurrò queste parole:

-Solo una donna sa come ci si sente quando il suo corpo viene penetrato dal membro di uno stupratore.

Rimasi in silenzio, per rispetto, permettendo al suo dolore di penetrare dentro di me. Abbiamo tutti degli scheletri nell’armadio, pensai. Volevo mostrarle la mia comprensione, la mia solidarietà, il mio affetto. Volevo dirle qualcosa come: “Non è stata colpa tua”, ma mi parve un commento sciocco ed inopportuno. Avrei voluto dirle: “ Hai incontrato un mostro sul tuo percorso che ti ha usato, è stato un incidente, come un mattone che ti cade in testa da un palazzo in costruzione, tutto qua”. Ma tutte queste parole non dette mi sembravano goffe e inappropriate, perciò rimasi in silenzio, rispettosamente, ma anche quel silenzio mi parve goffo ed inappropriato.

Dirle che tante persone vivono esperienze simili, o anche peggiori, sarebbe stato inutile. Non è ciò che ha bisogno di sentire, pensai. C’è sempre qualcuno che sta peggio di te, e c’è sempre qualcuno pronto a paragonare il tuo dolore con quello di qualcun’ altro. Non sarei stato uno di quelli.

-Adesso sei qui, al sicuro - fu l’unica cosa che riuscii a dire, mentre le prendevo la mano. Lei allontanò la mia mano dalla sua, ma io continuai ad ascoltarla e a lasciare che il suo dolore penetrasse dentro di me. Mi parve che prenderle la mano fosse stato un gesto estremamente fuori luogo: la sua sofferenza era dovuta al fatto che qualcuno avesse abusato del suo corpo ed io le avevo preso la mano. Che gesto insensato ed insensibile. Che idiota che sono.

-Non puoi capire cosa si prova, perché non sai cosa significa essere molestati per tutta la vita, fin dall’infanzia, quando non conosci neanche il significato della parola molestia- Probabilmente, stava ripensando a ciò che mi aveva raccontato poco prima, un evento che le era accaduto da bambina, quando un pedofilo le aveva sorriso dal finestrino della sua macchina mentre lei era seduta sul pullmino della scuola. Pochi secondi dopo, lo aveva sorpreso a masturbarsi alla guida. A quell’età non poteva sapere cosa quell’uomo stesse facendo, ma aveva avuto la sensazione che si trattasse di qualcosa di sporco e sbagliato.

-Tu non puoi sentire quello che sentiamo noi - disse, quasi con orgoglio -Devi passare per la stessa situazione per capire, ma sei un uomo, e tutti gli stupratori sono uomini.

Rimasi in silenzio, rispettosamente. Sapevo che sarebbe stato inutile dirle che i pedofili perseguitano sia i bambini che le bambine, e sarebbe stato polemico ricordarle che anche i bambini possono essere vittime di pratiche sessuali fortemente umilianti. Ma a che scopo? Deborah aveva bisogno di sostegno ed io pensai che solo il mio silenzio potesse alleviare il peso dei suoi ricordi. Quindi rimasi ancora in silenzio ad ascoltarla, e potevo udire l’eco delle sue parole rimbombando nella mia mente: tutti gli stupratori sono uomini. Quelle parole rendevano difficile il poter provare completa empatia per le vittime, poterne far parte, essere come loro. In un angolo della sua mente giaceva l’idea che io fossi il nemico, e ciò creava distanza fra noi. Feci attenzione a non prenderle nuovamente la mano, dato che ai suoi occhi non ero nient’altro che un  potenziale stupratore, ma il mio volto doveva celare uno sguardo di comprensione, perchè Deborah ebbe una reazione piuttosto infastidita, e disse:

-Anche quando una donna non ha mai subito uno stupro o una molestia, riesce a capire cosa significa. Noi  donne siamo sensibili ed emotivamente ricettive, femminili, appunto. Voi uomini siete rigidi e chiusi, o perlomeno è ciò che vi viene insegnato. Siamo diversi, perciò tu non potrai mai comprendere come ci si sente ad essere abusati sessualmente …

A quel punto, io smisi di ascoltare. L’unica cosa che riuscivo ad udire era il suo tono di voce accusatorio, ma la mia mente si era completamente distaccata. Osservavo le macchine che uscivano dall’autostrada e percepivo il rumore dei loro motori, ma non facevo neanche caso al traffico.  I miei pensieri tornarono indietro, al giorno in cui fui stuprato.

Quel giorno mi picchiarono dappertutto, ma io non sentivo neanche il dolore dei colpi, forse a causa dell’adrenalina, della paura e della rabbia, ma la mia mente non era abbastanza offuscata da non registrare il contatto del mio corpo col membro del tipo che cercava di penetrarmi. All’inizio fece fatica e gli altri prigionieri si misero a ridere, ma ad un tratto successe. Sentii qualcosa entrare dentro il mio ano e provai una sensazione di profonda umiliazione. “Verga, me estan cogiendo”, pensai. Cazzo, mi stanno inculando. Sentii un fuoco nel petto, e cominciai a piangere. Non volevo che gli altri prigionieri mi vedessero piangere, ma non riuscii a resistere. “Llora, mamita”, piangi frocio, gridavano mentre ridevano di me. Allora io decisi di concentrarmi solo su un’idea: ciò che stava accadendo non era né colpa mia né una mia decisione, ma responsabilità e scelta di quella bestia mostruosa alle mie spalle. Pensai intensamente a ciò che Julio Escalona, un ex guerrillero, mi aveva detto di fare se mai mi fossi trovato sotto tortura: proteggi la tua anima. Dovevo proteggere la mia anima, perché il mio corpo, momentaneamente, non mi apparteneva più.

 

Deborah continuava a parlare mentre i ricordi di quel giorno riaffioravano confusamente, come dei flashback sparsi qua e là. Il petto in fiamme, i pensieri in un vortice e una sola ancora di salvezza: le parole di Julio che mi preparavano alla possibilità di essere torturato, dato che avevo deciso di entrare nel partito. Il torturatore, mi aveva spiegato Julio, è una persona piena di odio che è consapevole della tua natura amorevole. Non ha ideali, ma sa che tu ne hai; soffre, perché si sente inferiore, ignorante, meschino, e odia la tua generosità, la tua saggezza, la tua consapevolezza. Vuole farti diventare come lui, una bestia. Vuole sentirsi superiore a te, ma soprattutto desidera che tu diventi come lui. Vuole darti una lezione perché ritiene di sapere come funziona il mondo, mentre tu non lo sai. Perciò l’unica cosa che può salvarti dalla pazzia in una situazione come quella è la consapevolezza che passerà e che lui rimarrà ciò che è, e tu ciò che sei. Passerà e tu rimarrai ciò che sei, non diventerai un mostro. Ma l’unica maniera per non perdere te stesso sarà capire che è stato solo un incidente, nient’altro.

I flashback andavano e venivano, mentre le parole di Julio erano ancora chiare e presenti e facevano parte del mio armamentario difensivo nella mia lotta contro i cattivi ricordi. La mente è potente, quegli attimi passeranno, ma ciò non cambia la realtà. La sensazione del suo membro che penetra dentro di me molteplici volte è reale, così come il dolore che ne consegue e l’umiliazione a cui si aggiunge la rabbia che mi brucia in petto e la vista degli altri prigionieri che urlano: “Dale duro, llora mamita”. Rompigli il culo a quel frocio, fallo piangere. Dolore, umiliazione e disgusto, non saprei dire quale sia peggio. Tutti questi ricordi riaffiorarono improvvisamente insieme a fantasie di vendetta, in cui io mi facevo valere e ammazzavo tutti i presenti fracassandogli la testa contro il muro, il pavimento, le scale. Quante volte avevo immaginato di far soffrire a quei mostri le pene dell’inferno, e in quel modo trovare un riscatto al mio dolore. All’improvviso i miei pensieri vennero interrotti.

-E per questo motivo, tu non puoi capire - concluse Deborah.

Chissà quali altre idee aveva espresso fino ad allora, ma le sue conclusioni erano chiare: io non potevo sentire quello che sentiva lei, io ero l’altro, l’aguzzino. A quel punto, sentii il bisogno di farle sapere che si sbagliava. Fui travolto da emozioni contrastanti. Da un lato, desideravo creare un ponte tra noi, per potermi avvicinare a quell’essere umano che stava soffrendo; dall’altro lato, rifiutavo l’idea di usare il mio dolore per stemperare la sua rabbia nei miei confronti, in quanto rappresentante, in quella circostanza, del genere maschile, degli stupratori. Infine, mi sentii incoraggiato a rivelare ciò che mi era successo mentre ero in prigione. Ebbi un dubbio e aspettai. Poi mi decisi a parlare. Le mie gambe tremavano, mentre, con la voce rotta, le rivelavo i dettagli più crudi di quell’esperienza. All’improvviso, come se non avesse ascoltato nulla di ciò che le stavo dicendo, mi chiese:

-Sei stato stuprato?

La sua domanda mi fece sentire molto a disagio, dato che non vi era nessun dubbio su ciò che era accaduto. Il tempo per la pausa pranzo stava per finire, così Deborah terminò di fumare la sua sigaretta in silenzio e tornammo a lavoro. Una volta rientrati in ufficio, mi salutò e nei due giorni successivi evitò di parlarmi.

Il terzo giorno Carolina, la mia collega spagnola, mi disse che aveva parlato con Deborah, la quale si era lamentata del fatto che io avessi tirato fuori delle questioni personali. Disse che Deborah le aveva confessato di essersi sentita a disagio durante quel dialogo. A disagio?

-Sei sicura che ti abbia detto così? - le chiesi.

-Sicurissima. Di cosa avete parlato? - mi domandò

-Cose personali, è vero … lasciamo stare …

Non potevo crederci. Le avevo rivelato il più intimo dei miei segreti, aveva visto come le mie gambe tremassero e udito la mia voce rotta dall’emozione, ma la sua unica reazione era stata quella di sentirsi a disagio … pensai che forse non aveva capito bene, che si era distratta mentre le raccontavo quelle cose, che anche a me a volte succede di non prestare attenzione a ciò che mi viene detto, perso nei miei pensieri …

Nei giorni a seguire, presi le distanze da lei. Potevo vederla dall’altro lato della stanza, seduta alla sua scrivania,  concentrata sul computer e sul lavoro da svolgere, ma evitavo di incrociare il suo sguardo, perché sapevo che mi avrebbe ferito. Per fortuna, poco tempo dopo, trovò un altro lavoro e se ne andò. Da parte mia, imparai a mantenere le distanze da qualunque donna che facesse grandi apologie sul genere femminile. Mi ritengo di essere un uomo che sta dalla parte delle donne, e lo sarò sempre, ma era ovvio che dovevo stare alla larga da donne come Deborah, per il mio bene. Donne che non amano le altre donne, ma semplicemente odiano gli uomini. Lei era per il movimento femminista ciò che i comunisti “radical-chic” furono per il mio popolo in lotta. Avevo preso le distanze da questa tipologia di comunisti, e decisi che non avrei mai più rivelato ad una donna che si fosse proclamata superiore a me nella sua capacità di comprensione dei fatti, solo in quanto appartenente al genere femminile, ciò che mi era accaduto. Mai più. Sarebbe stato come dare al mio stupratore un’altra soddisfazione, quella di aver avuto ragione nel pensare che nessuna donna mi avrebbe più rispettato a causa di quella violenza; col suo comportamento, Deborah aveva completato l’opera del mio aguzzino. Avrei voluto andare fuori casa sua, davanti alla porta di casa, premere il campanello e aspettare che aprisse, per poi urlarle in faccia:

-Hai fatto un ottimo lavoro, stronza. Vaffanculo –, ma non lo feci.

Passarono i mesi, e poi gli anni. Mi lasciai alle spalle l’accaduto, ma tenni fede alla promessa che avevo fatto a me stesso, di mantenere le distanze da qualunque donna che facesse grandi proclami, e non mi era difficile farlo, dato che facevo la stessa cosa con i comunisti radical-chic, come li chiamavo io, e i cristiani ferventi, sempre pronti ad abusare del nome di Dio, del Signore e di Gesù Cristo. Per il resto, mi sentivo in pace con le donne in generale, comprese le femministe, in particolare con Katerine.

Katerine fu la seconda donna a cui rivelai ciò che mi era accaduto. La amavo, e poco dopo averla conosciuta cominciai a pensare che potesse divenire la mia compagna. Era una donna piena di energia e desiderosa di impegnarsi in una relazione e queste cose mi fecero sperare che fosse la persona più adatta a me. La desideravo tantissimo. Era una donna molto comprensiva ed empatica, ed anche lei lavorava nel mio stesso ufficio. Per costruire una relazione con lei, dovevo necessariamente condividere i miei pensieri più intimi, i miei problemi e le mie esperienze passate. Dovevo mostrarle la mia anima, o almeno così credevo. Deborah se n’era andata già da qualche anno, aveva trovato un altro lavoro con più responsabilità e pagato di più; per fortuna non l’avevo più vista. Dovevo fare attenzione a non mostrare mai più quella parte rovinata della mia anima ad un’altra Deborah, ma pensavo che Katerine fosse diversa. La dolcezza della sua voce, la calma con la quale interagiva con me, i suoi sguardi e l’attenzione con cui mi ascoltava non avevano nulla a che fare con Deborah. Di fatto, me la fecero dimenticare.

L’amicizia con Katerine si fece sempre più profonda. Spesso camminavamo dall’ufficio alla stazione dei treni insieme, e a volte ci fermavamo per una birra in qualche pub. Un giorno ci trovavamo alla stazione di Leeds ad aspettare i nostri treni per Bingley e Saltaire, ma per qualche motivo c’erano dei ritardi. Stavamo chiacchierando e come al solito lei mi aveva preso la mano. Lentamente mi accorsi che qualcosa stava succedendo: Katerine guardava le mie labbra e improvvisamente smise di parlare. Cominciò ad inumidire le sue con la lingua, un po’ alla volta, e a sfiorare il mio stomaco con la mano. Mi sentii eccitato da ciò che stava accadendo proprio lì, alla stazione, vicino al binario dei treni. Avevo smesso di prestare attenzione a ciò che diceva nel momento in cui mi ero accorto che stava tenendo la mia mano più a lungo del solito, e il mio desidero nei suoi confronti crebbe, ma mi trattenni. Calmati, mi dissi, non farti travolgere da idee sbagliate. Katerine è una collega ed un’amica, non rovinare tutto. Ma non potevo controllare le reazioni del mio corpo e lei si accorse che le stavo guardando le gambe, desideroso di infilare la testa tra quelle cosce deliziose. I segni del mio desiderio diventavano sempre più evidenti e rompevano le barriere che le parole, pronunciate timidamente, cercavano a stento di mantenere. Cominciò a piovere e in quel momento arrivò il mio treno. Con uno sguardo malizioso, Katerine sali con me sul vagone, diretto a Saltaire. Fu una sua decisione.

Il treno viaggiò alla velocità della luce e il tempo sembrò dissolversi. Lei mi parlava ma io non la ascoltavo, perché l’unica cosa a cui potevo pensare era il desiderio di farla mia. Succede sempre così, all’improvviso perdo il filo del discorso perché l’istinto prevale e tutte le mie buone intenzioni femministe svaniscono. Lei cerca di colpirmi con i suoi discorsi e la sua intelligenza, ma io non ascolto più e smetto di ragionare. Vorrei solo avvicinarmi a lei e cominciare a baciarla, ma non lo faccio mai.  Anche se sto perdendo coscienza di me stesso, in qualche modo riesco a controllarmi e aspetto che sia lei a fare il primo passo. Ma nessuno dei due fece nulla durante il viaggio in treno, e così arrivammo a Saltaire e decidemmo di fermarci in un bar, che un tempo era stato una stazione del tram, un posto molto conosciuto in città. Prendemmo qualcosa da bere e da mangiare, dopodiché ce ne andammo verso una destinazione ignota. Ci baciammo nel momento in cui lei si stancò di aspettare che io facessi la prima mossa. Fu lei a decidere il momento propizio: si fermò davanti a me, mi guardò negli occhi e sorrise.

Dopo esserci baciati, sentii immediatamente la necessità di rivelarle quel segreto che mi lacerava l’anima. Dovevo confessarle la verità, spiegarle che ero stato un uomo ferito ed umiliato. Non potevo evitarlo, se volevo creare una relazione autentica con un altro essere umano. Camminammo l’uno accanto all’altra tenendoci la mano, ed arrivammo ad una panchina nel parco. C’era ancora molta luce, perché in Inghilterra le giornate primaverili sono molto lunghe e quando c’è il sole appaiono ancora più belle, in contrasto con i giorni di pioggia, che sono molto frequenti. Era un giorno speciale, perfetto per rivelare la verità. Sentivo un profondo amore, ma anche molta paura. Temevo di poter essere rifiutato. Ancora una volta, la mia voce si ruppe e le mie gambe cominciarono a tremare. Mi avvicinai alla panchina e mi sedetti, perché facevo fatica a stare in piedi. Di nuovo, stavo lasciando che quei ricordi, che avevo cercato di cancellare disperatamente, riaffiorassero. A volte quei ricordi ritornavano inaspettati e mi riempivano di dolore e sgomento, ma volevo che Katerine conoscesse questo fantasma, uno dei tanti, e cosi cominciai a raccontarle dell’accaduto. Lei mi ascoltò con attenzione, fino alla fine. Non inventò nessuna scusa per sfuggire a quella confessione, né ebbe bisogno di chiedermi se ciò di cui stavo parlando fosse una violenza sessuale. Fu semplicemente perfetta e mi fece sentire amato ed accettato. Quando ci alzammo dalla panchina, mi abbracciò a lungo. Adesso che le avevo rivelato il mio segreto più oscuro, potevo farle l’amore. Il veleno lasciato dal serpente era stato spurgato.

Riprendemmo a camminare mano nella mano, ed io mi sentivo leggero, liberato infine dal carico di adrenalina che la paura del rifiuto aveva creato. Ero pronto e desideroso di unire il mio corpo al suo, di baciarla ovunque, di sentire che eravamo una cosa sola. Il mio cuore batteva all’impazzata quando arrivammo al mio appartamento. Katerine disse qualcosa, ma io non capii. Il mio cervello si era ormai chiuso a qualunque messaggio che non fosse direttamente legato a ciò che stava per succedere. Le afferrai una mano e cominciai a dirigermi verso la camera da letto. Contro le mie aspettative, Katerine fece resistenza e girò la testa in direzione del divano. Il suo comportamento indicava chiaramente che non aveva intenzione di fare l’amore, ma dato che mi era difficile poterlo credere, si decise a parlare:

-Non ancora- credo che disse.

-Va bene, non ti preoccupare, non c’è fretta - risposi immediatamente, come se fosse tutto chiaro. Pensai che forse non era il momento giusto, magari aveva il ciclo e poteva sentirsi in difficoltà, forse era come Isabel, che rifiutava categoricamente di avere sesso in quei giorni. Ma mi sbagliavo, e come se il linguaggio del corpo non bastasse, anche le parole che più temevo furono pronunciate.

-Ti vedo solo come un amico.

Odiavo quella frase. Prima o poi, avrei trovato il coraggio per rispondere: “Anche io ti vedo solo come un’amica. Non voglio mica sposarti, voglio solo scopare”. Come posso essere amico di una donna che non mi considera per quello che sono? Ero sicuro di ciò che stava accadendo: ci eravamo baciati, lei era salita sul treno con me, e il desiderio sessuale era cresciuto sempre di più. Semplicemente aveva cambiato idea nel momento in cui le avevo rivelato il mio segreto. Ancora una volta, sentii quell’orribile sensazione di rifiuto. Il mio aguzzino aveva vinto di nuovo. Potevo vederlo sghignazzare  insieme a tutti gli altri prigionieri, con quel sorriso sdentato e dire soddisfatto: Ti ho inculato di nuovo, stronzo. Nessuna donna ti rispetterà mai più. Il veleno che pensavo si fosse quasi estinto dal mio corpo, riprese improvvisamente a scorrere nelle vene.

Presi le distanze da Katerine. Sapevo che non era una persona cattiva e che forse avrebbe anche voluto mettersi in discussione per me; ero consapevole del fatto che abbiamo tutti delle contraddizioni e a volte le emozioni prendono il sopravvento sulle nostre convinzioni. Non possiamo sempre controllare le nostre reazioni: una persona può essere vegetariana e allo stesso tempo amare l’odore del bacon fritto, succede. Katerine non riusciva a vedermi come un uomo, dopo aver saputo del mio incidente, succede. Dovevo accettare che il nostro cervello è fatto così, non può sempre assecondare le nostre convinzioni più sofisticate. Spesso, sono gli istinti a prevalere e non sempre si riesce a cambiarli. E’ così che funziona, è un sistema difettoso, ma bisogna accettarlo. Razionalmente, riuscivo a comprendere il suo comportamento, ma era difficile accettare di essere scartati come spazzatura. Così un po’ alla volta, presi le distanze da lei. Non volevo ferirla né creare un dramma, semplicemente smisi di cercarla e anche lei sembrò perdere interesse nei miei confronti. Arrivò il giorno in cui decisi di non chiamarla più.

Quel giorno, ero particolarmente triste. Stavo camminando lungo il bordo del canale a Saltaire e avrei voluto parlare con qualcuno. Presi il telefono in mano e cercai il suo nome tra i miei contatti, ma non la chiamai. Nuovamente, presi la stessa risolutiva decisione di un tempo: non avrei mai più parlato del mio incidente con anima viva. Mai più. Julio Escalona si sbagliava o perlomeno non mi aveva detto tutta la verità. La verità era che sarei stato solo a combattere contro il mio aguzzino, per il resto della mia vita. Neanche Dio sarebbe stato al mio fianco. Nessuno. Così è la vita, brutale ed io avevo avuto la mia porzione di brutalità. L’unica maniera per vivere dignitosamente, era di mantenere il segreto. Perché mai avrei dovuto rivelare chi e come aveva penetrato il mio ano? E’ una cosa importante solo per me, perché io ritengo di essere stato umiliato e lascio che questi pensieri crescano dentro di me. La verità non è così importante, l’unica cosa che conta è la mia vita, le mie lotte, le mie vittorie, non quell’incidente! E il modo in cui ragionano gli altri, anche quello è un incidente, un difetto di fabbrica. Quindi l’unica via percorribile nella mia situazione è quella di mantenere il segreto. Se mai avessi incontrato una donna immune al mio veleno, che si fosse innamorata di me, le avrei fatto sentire tutta la potenza del mio amore, che è immensa, e la mia volontà ad accettare tutto di lei. Troverei un modo per farle capire che ogni cellula del mio corpo è pronta ad accettarla per quello che è, e ad accettare tutto ciò che da lei proviene, ogni sua debolezza, ogni sua vergogna, tutto. Avevo dovuto riconnettere il mio cervello per riuscire ad accettarmi, e questa era la ragione principale per cui sarei stato in grado di amare il prossimo come nessun altro. Io sono un sopravvissuto, sono più forte degli altri. Possiedo antidoti per veleni molto potenti e ne sono consapevole.

Passarono gli anni. Sopravvissi alla morte del mostro Zamani, alle lotte dei Bajunis, al suicidio di Mamosta, alle stronzate della Brexit che fecero merda del mio cervello; Mohammed ottenne i suoi voucher extra, mi accusarono della morte del figlio di Hirut e dello stress di Jonathan, finalmente feci fuori Charlotte. Avevo abbastanza nuovi traumi da dimenticare le mie vicissitudini in Venezuela, finchè vidi il corpo senza vita di Sofia, e decisi che dovevo scrivere su di lei. Sarebbe stato facile sedermi da qualche parte e farlo e così comprai un biglietto per la Sicilia, e me ne andai.

Scelsi Palermo. Fenicia, greca, romana, araba, bizantina, normanna, spagnola ed infine, italiana. I resti di tutto ciò che di buono e di meno buono ci furono nel mondo occidentale si trovano qui, presenti nella sua architettura, cultura e gastronomia. Ci sono montagne per arrampicarsi  e spiagge per andare a nuotare. Quando l’aereo atterrò, provai una forte emozione alla vista del Monte Pellegrino, del mare da un lato e della città dall’altro, proprio come a Caracas. Qui avrei scritto il mio libro per Sofia, magari con l’appoggio di un’amante italiana, passionale e sensibile, al mio fianco, ben diversa dalle donne che avevo frequentato in Inghilterra. Il sole del mar Mediterraneo mi avrebbe aiutato a rinfrescare la mente, e fu così che conobbi una poetessa, Helene.

In effetti, Helene era unica. Innanzitutto parlava francese, e il suo inglese aveva quella particolare intonazione che mi piaceva da matti; poi era così diversa dalle persone che avevo conosciuto in Gran Bretagna, soprattutto non beveva come loro. Forse posso diventare un suo caro amico, pensai poco dopo averla conosciuta. Le rivelai molti dei miei problemi e lei mi ascoltò sempre con grande attenzione, ma non le dissi mai dell’incidente. Helene amava passeggiare con me lungo la Marina di Palermo e vicino al Foro Italico, un bellissimo viale accanto al mare. Da lì si scorgono le montagne e si vede il mare, la città vecchia e in lontananza i palazzi di Bagheria, il paese dove furono girate molte scene di Cinema Paradiso. I rumori della città si mescolano distanti al suono delle onde che si infrangono sugli scogli. Tutt’intorno si vedono bambini che giocano, ragazzi che chiacchierano, anziani che passeggiano e amanti che si baciano. Ci trovavamo in questo lungo anche il giorno in cui Helene cominciò a parlarmi del suo segreto, e così seppi che anche lei aveva subito un incidente, simile al mio. Era addirittura finita in ospedale a causa di quella violenza, in Canada, ma disse che ormai era acqua passata. Tornammo in ostello senza aprire bocca, ed io pensai che il mio silenzio le aveva forse fatto pensare che avevo accolto completamente il suo dolore dentro di me. E così passò quel giorno, e molti altri. Tornammo molte volte sul Foro Italico e vicino alla Marina, e ogni volta riconoscevamo dei volti che avevamo già visto. Parlavamo dei nostri sogni, del libro che lei stava scrivendo e delle sue poesie. Parlavamo anche del futuro e a me parve che l’aver saputo del suo incidente ci avesse fatto avvicinare.

Camminavamo tra le strade della parte vecchia di Palermo ed io ascoltavo con piacere qualunque cosa lei avesse da dirmi. Mi leggeva le sue poesie in francese, e con pazienza, mi dava tempo per comprenderle ed assimilarle, dato che il mio francese non è molto buono. Volle leggermi anche  le poesie tratte dal suo “libro rosso”, e tra quelle le più audaci. Anche io le parlavo di me, del mostro Zamani, del mio lavoro con la Croce Rossa, di Hirut e del libro per Sofia, ma non accennai mai al mio incidente. La nostra amicizia rimase forte, e io continuai a mantenere il mio segreto. Ogni tanto Helene partiva alla scoperta di luoghi sconosciuti in Sicilia, ed ogni volta che tornava, aveva qualche storia da raccontare, non perché qualcosa di particolare fosse accaduto, ma perché aveva un modo di narrare le cose che rendeva ogni vicenda speciale. Io aspettavo con impazienza il suo ritorno, desideroso di conoscere, attraverso i suoi racconti,  nuove città, nuovi paesi e montagne e mari. Un giorno, di ritorno da uno dei suoi viaggi, mi chiese se potessi condividere la mia stanza con lei, dato che l’ostello dove alloggiavamo era pieno. Accettai senza esitazione, sapendo che la sua richiesta non aveva alcun fine erotico. In qualche modo, conoscerla cosi intimamente non aveva suscitato nessun desiderio sessuale in me, stranamente. Pensai che forse stavo cominciando ad invecchiare.

-Posso stare su quel divanetto che c’è in camera tua, se non è un problema per te - disse.

-Certamente – risposi. Non sarebbe stato un problema neanche per il proprietario, e magari avrebbe anche potuto risparmiare qualcosa.

- Potremo chiacchierare a lungo prima di andare a dormire.

-Si, certo, mi farebbe piacere avere qualcuno con cui chiacchierare, se vuoi possiamo condividere la mia stanza ogni qualvolta tornerai da uno dei tuoi viaggi, cosi non devi neanche pagare per un letto – le dissi.

-Non lo faccio per i soldi, ma se risparmiassi qualcosa non sarebbe male – mi rispose ringraziandomi.

Purtroppo, arrivò il giorno in cui scoprii che anche in Sicilia ci sono serpenti velenosi. Helene era andata a Taormina, un’antica colonia ateniese  dove i greci costruirono il teatro più spettacolare al mondo. Dietro lo scenario, si intravede il vulcano fumante da un lato, e il mare dall’altro. A Helene era piaciuta la vista del vulcano, aveva fatto molte cose e scritto dei versi per il suo libro rosso. Al ritorno aveva spostato tutte le sue cose in quella che sarebbe diventata la nostra stanza. Mangiammo delle patatine e un po’ di noccioline, dopodiché cominciò a riporre i suoi vestiti nell’armadio, senza sapere cosa stessi aspettando. Io attendevo con ansia di ascoltare il racconto del suo viaggio, quindi appena ebbe finito di mettere via le sue cose, ci sedemmo sul divanetto. Un improvviso desiderio di intimità mi avvolse. Non era desiderio sessuale, ma solo voglia di intimità: era chiaro che lei era la persona giusta, a cui potevo rivelare il mio segreto. D’altronde, anche lei era passata per lo stesso inferno, anche lei aveva avuto il mio stesso incidente. I ricordi dell’accaduto cominciarono ad affiorare, ed io cominciai a parlare.

-Sono stato torturato. So cosa si prova ad essere stuprati.

Di nuovo, ebbi quella sensazione di panico che provo ogni qualvolta parlo dell’accaduto. Le gambe cominciarono a tremare, e poi tutto il corpo. Questa volta però, feci attenzione a prendere delle pause durante il mio racconto, in modo che le mie parole potessero essere udite chiaramente. Non volevo che accadesse quello che era successo con Deborah, che al termine della mia confessione, aveva ritenuto necessario chiedermi se ero stato violentato, come se ciò non fosse stato chiaramente espresso dalle mie parole.

-So che il danno maggiore è psicologico, soprattutto per l’umiliazione che ne consegue e il ricordo dell’accaduto. Poi subentra il desiderio di vendetta, di fargliela pagare a quei mostri. La percezione di te stesso cambia, e a volte ti sembra di essere divenuto uno stereotipo, una specie di caso umano …

Stavo ancora finendo il mio discorso ma Helene mi interruppe.

-Scusami, tesoro. Non posso ascoltarti oltre. E’ meglio se vado da un’altra parte. Davvero, non è colpa tua, ma devo pensare a me stessa – disse, e uscì dalla stanza.

Da quel momento in poi evitò di parlarmi, ed ogni volta che partiva per uno dei suoi viaggi, non mi diceva più né dove andava, né quando sarebbe tornata. Ogni volta che la vedevo, provavo un enorme dolore. Ancora una volta, mi sentii messo in discussione in quanto uomo, anche se stavolta non capivo come avesse potuto succedere di nuovo. Mi sentii stupido perché avevo voluto nuovamente parlare del mio incidente con una donna. Capii che avevo incontrato un altro serpente, molto velenoso, e nuovamente dissi a me stesso: mai più. Da quel momento in poi, persi completamente la speranza di poter incontrare una donna che potesse divenire la mia compagna. Non avrei mai più commesso quell’errore, eppure non fu così, perché conobbi te, Celine. Tu mi hai fatto far pace con le donne, col femminismo, con la vita. Tu mi hai dato la forza e l’ispirazione per scrivere la storia che scriverò dopo aver finito il libro per Sofia. Se mai uscirò vivo da questo inferno, Celine, scriverò di te.

Mi hai aiutato a curare il mio dolore, mi hai preso per mano quando ti ho raccontato del mio incidente e hai accolto la mia sofferenza; quando che il momento della confessione terminò, mi hai fatto sentire nuovamente uomo. Hai accettato il mio desiderio e mi hai dato l’opportunità di amarti, di farti eccitare, di baciarti dappertutto. Hai goduto nel vedermi assaporare i tuoi succhi, e hai sorriso quando ti ho penetrato con tutta la mia forza. Hai ascoltato con gioia le parole dolci che ho sussurrato al tuo orecchio quando i nostri corpi si sono fermati, bagnati di sudore. Mi hai abbracciato per proteggermi dal freddo, e hai toccato ogni parte del mio corpo. Hai voluto che esplorassi il tuo, ed entrambi abbiamo gioito di aver goduto dei nostri corpi. Ad ogni modo, la parte migliore è stata poter parlare con te mentre eravamo ancora a letto. Avevo bisogno di rivelarti i miei demoni, e una volta imprigionati, ho voluto che vedessi la mia anima di bambino, nascosta dietro la mia apparenza di intellettuale snob, ma ancora presente dentro di me. Volevo che conoscessi tutto di me, in modo che io potessi a mia volta ricevere tutto di te. Hai ingoiato il mio veleno e lo hai risputato, dandomi la possibilità di ricominciare di nuovo. Ti amo.

-Dovresti scrivere qualcosa su queste vicende, sei così bravo a raccontare storie- mi hai detto.

-Ma come posso parlare di me con sincerità, questa storia è troppo sporca.

-Forse la cosa migliore sarebbe inventare una vicenda verosimile, non raccontare esattamente la tua storia – mi hai risposto.

In quel momento pensai che eri la persona giusta per stare accanto ad un aspirante genio, ma la realtà è che tu sei il genio ed io sono solo un operaio al tuo servizio.

-Non importa chi è il genio, la cosa importante è creare un’opera d’arte che parli dell’intimità tra chi si ama - aggiungesti, indovinando i miei pensieri. Capivo perfettamente cosa volessi dire: la tua comprensione dei miei demoni mi aveva riempito l’anima del desiderio di accettare i tuoi, anche quelli più imbarazzanti. Ti avevo confessato i miei segreti, e volevo conoscere i tuoi. La nostra connessione emotiva aveva creato un’attrazione sessuale che era il riflesso della nostra complicità.

-Non parlare di sesso in maniera così esplicita, lascialo da parte per un altro libro - mi dicesti, dopo aver letto quello che avevo scritto. Lo cancellai, ma c’era una frase che volevo lasciare, per esprimere quanto mi era piaciuto fare sesso orale insieme.

-Cancellala. Questo non è il racconto adatto per queste digressioni – mi hai detto.

-Qui è dove parlo del mio incidente e del modo in cui sono venuto a patti con la realtà.

-Cambia qualche dettaglio, non dire tutta la verità.

-Ma in questo modo i lettori non sapranno mai cosa è vero e cosa non lo è. E’ come se li stessi prendendo in giro, qualcuno di loro potrebbe anche rimanerci male – ho provato a spiegarti.

-E allora? Si tratta di storie.

-Quindi, come dovrei cominciare? – ti ho chiesto.

-Scrivi questa frase, in uno dei dialoghi: “Solo una donna sa come ci si sente quando il suo corpo è penetrato dal membro di uno stupratore”.

-Ma è troppo brutale! E poi non è vero, sarei un bugiardo se lo dicessi.

-Che importa se lo sei. Non sarai tu a dirlo, puoi farlo dire da uno dei personaggi.

Amo la tua complicità, Celine, e anche se ci sono stati dei momenti in cui ho pensato che non esistessi, sento che ci sei e che riesci a decifrarmi. Sei qui con me, mentre sento e scrivo.

-Si, ci sono. Tu credi che sono frutto della tua fantasia, ma sono qui. Non ho provato le tue sensazioni sulla mia pelle, ma ero lì con te. Non te ne sei accorto? – mi hai risposto.

-Si, credo di si. Hai vissuto la mia storia a modo tuo, e mi fa piacere che tu lo abbia fatto. Ma come reagirebbe un lettore che fosse un uomo?

In quel caso non ti preoccupare, mi hai detto: se sono arrivati fino a questo punto, proveranno empatia. Avranno pietà sia di me, che di te.