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mercoledì 28 giugno 2023

L’impostore e la sua farsa

 


Presto la versione elettronica della 'raccolta di racconti del bloody migrant' sarà disponibile su Kindle




Ricordo ancora quel pomeriggio di luglio quando uscendo dal lavoro, cominciai a riflettere sulla mia farsa e di come fossi convinto che sarei stato scoperto di lì a breve, forse durante quello stesso fine settimana. Quello che ancora non potevo immaginare era in che tipo di casino mi fossi messo, e ancora meno quanto fosse grande. Avevo un’idea di ciò che era ovvio, ovvero che mi avrebbero scoperto, e dato che avevo anche mentito per ottenere quel lavoro, avrei pagato con la più grande delle umiliazioni: il disonore.


Ricordo che quel pomeriggio di luglio camminavo per strada come se stessi fuori di me, mentre pensavo a come ero finito in quel guaio, proprio io, che soffro d’ansia e mi angoscio per ogni cosa, perfino quando vedo un film dove il protagonista rischia di non essere capito e finisce per litigare con la moglie. Questi film mi danno le palpitazioni e devo spegnere il televisore per evitare di sentirmi così angosciato. In quel pomeriggio di luglio, sentendo che le mie bugie sarebbero venute presto alla luce, mi venne un forte dolore al petto che mi lasciò quasi senza fiato. Per prima cosa sentii le palpitazioni, poi la nausea che precede l’infarto, come mi succede sempre da quando sono diventato ipocondriaco; infine sentii che il cuore mi fuoriusciva dal petto e mi sembrò quasi di non poter più respirare. Per calmarmi, provai a sforzarmi per accettare l’idea che quella farsa avrebbe potuto raggiungere la fine, e l’unica cosa che mi rimaneva da fare era ragionare.


Cuand’è che sono diventato un commediante?, pensavo. Conoscevo la risposta: fu il giorno che ascoltai parlare l’assessore, il cinese, quel responsabile dei rifugiati che si atteggiava come se sapesse tutto lui. Effettivamente fu proprio lui a convincermi che una farsa fosse l’unica via percorribile. Quindi non mi rimaneva altra cosa che diventare un impostore, anche solo un pochino, insomma un commediante. Mi sforzavo di ricordare se quel giorno ci fosse il sole, cosa rara in Inghilterra, o se stesse piovigginando come al solito. Ma di cosa potevo rendermi conto, di un bel niente! Ero cosi assorto negli incubi che facevo ad occhi aperti che mi dimenticai da quale lato provenissero le macchine e così, nell’attraversare la strada, quasi vengo investito da un furgone che arrivava dal lato corretto, dal cui abitacolo fuoriuscirono immediatamente delle parole di insulto che non avevano niente a che vedere con le parolacce che diciamo in Venezuela. Dato che quell’uomo alla guida non riuscì a proferirne neanche una che fosse così azzeccata da tirarmi fuori dai miei ragionamenti, proseguii sui miei passi, perso tra i miei pensieri. Forse se avesse minacciato di uccidermi, mi avrebbe fornito una buona soluzione. Non è che io sia uno stravagante per vocazione, è ciò che mi succede ad esserlo, ed io semplicemente mi adatto. Tutti coloro che mi conoscono sanno che di fondo sono una persona corretta, o per meglio dire lo sono stato, con qualche piccola eccentricità quà e là, ma niente di grave.


Tutto cominciò il giorno in cui parlai col cinese, anche se ad essere sinceri neanche era un cinese, anche lui era un altro commediante, lui stesso me lo aveva detto, però questo lo racconterò in un'altra storia. Questo cinese, che non era cinese in realtà, mi aveva detto che lì in Inghilterra, non è importante quello che sai fare o ciò che hai fatto e studiato nel tuo paese di origine. Cosi mi disse, ed io in qualche modo avevo cominciato a capirlo, non bene come lo capisco adesso dopo aver vissuto qui per tanti anni, ma come qualcuno che ha già superato la fase iniziale, dove sei come un turista e ti sembra che tutto vada più o meno bene.


Il percorso dall’ufficio alla stazione non era lungo, però a me sembrò che durasse in eterno, tra attacchi ipocondriaci, un incidente d’auto a malapena evitato, insulti britannici, incubi ad occhi aperti, ricordi sparsi della conversazione con il cinese e gli sguardi inquisitori dei passanti che non potevano sapere nulla della mia farsa, ma sembravano guardarmi con sospetto. Continuavo ad infilare la mano in tasca e a toccare il cellulare, per controllare che fosse ancora lì e che magari non mi fossi immaginato tutto. Sapevo che avrebbe potuto suonare in qualsiasi momento, rovinando ogni cosa. La mia incapacità di risolvere il problema mi avrebbe tradito e la verità sarebbe venuta a galla. Ma chi me l’ha fatto fare di accettare un lavoro che non posso svolgere perché non ne ho le competenze? Chi altro, se non io, può mettersi in un guaio così? Che penserebbero i miei compari in Venezuela, se sapessero in che casino mi sono messo qui in Inghilterra? Meglio che non lo sappiano.


Il cinese aveva ragione ma io non avevo ancora vissuto in questo paese così a lungo da comprendere a pieno la profondità delle sue affermazioni, però avevo sofferto abbastanza a lungo per capire che aveva ragione e quindi dovevo continuare con la mia commedia se volevo progredire ed andare avanti, altrimenti avrei continuato a fare lavoretti poco qualificati, pagati il minimo e così via, quindi non avevo altra scelta. Ciò che avevo imparato in Venezuela non mi serviva lì, quindi dovetti reinventarmi e fui costretto a mentire. La verità è che chiunque abbia un minimo di cervello, a pensarci bene, sarebbe disposto a dire una piccola bugia, se quest’ultima non fosse completamente aliena alla realtà, per esempio dichiarare di conoscere un programma specifico per computer, quando in realtà ne conosce un altro simile. Una piccola bugia, insomma. Ma la menzogna che avrei detto io era la più grande tra tutte quelle che si possono dire in Inghilterra: avrei dichiarato di essere in grado di capire e parlare l’inglese. Peggio di così non si può, ma io feci in modo che fosse ancora peggio di così, com’era ovvio.


Vorrei chiarire che vi era un certo tipo di inglese che riuscivo a capire, ovvero quello lento, colto e pieno di pause parlato dagli stranieri che lo hanno imparato nelle scuole o all’università, niente a che vedere con l’inglese vivace, veloce e pieno di inflessioni parlato dagli autoctoni. Capivo abbastanza bene anche l’inglese scritto, quello dei testi letterari o scientifici, ma come potevo comprendere l’inglese dialettale dello Yorkshire, Lancaster o Liverpool. Insomma, capivo solo l’inglese scolastico, ma con l’inglese “autentico” facevo una gran fatica. Maledissi la mia educazione nel collegio in Venezuela, dove facevamo solo due ore di inglese alla settimana e ci sembrava quasi una distrazione dalle molte ore dedicate alle materie “importanti” come chimica, fisica e via di seguito. L’unica cosa che imparai a scuola fu un po’ di grammatica, un po’ di ortografia e a superare gli esami. Un altro paio di mesi nel “Colegio Americano” mi diedero un po’ più di sicurezza e mi prefissai l’obiettivo di migliorare da autodidatta, vedendo film in inglese con i sottotitoli; qualcos’altro lo imparai all’università, quando ci assegnavano alcuni libri da leggere in inglese, ed io, dizionario alla mano, li leggevo ma senza prestare attenzione a come si pronunciassero quelle parole. Insomma, per farla breve, potevo leggere, scrivere qualcosa e dire qualche frase; potevo addirittura capire l’assessore cinese, che poi risultò essere vietnamita, quando parlava, o un tedesco o un russo parlando in inglese, ma non un madrelingua: quasi ogni frase pronunciata da un parlante nativo conteneva una o due parole che non riuscivo a decifrare, di solito proprio quelle che servivano di più a comprendere l’intero messaggio. Questo accadeva quando ero fortunato; spesso mi capitava di non capire assolutamente nulla, neanche dove finisse una parola e ne cominciasse un’altra. E fu così che quando riempii la domanda per un lavoro con il Refugee Council, ebbi la faccia tosta di dichiarare, nella sezione degli idiomi parlati, la mia padronanza tanto dello spagnolo quanto dell’inglese. Come avrei potuto fare altrimenti? Non potevo fare domanda per un lavoro in Inghilterra e dichiarare di non conoscere la lingua. Mi veniva da ridere al pensiero dell’impiegato delle risorse umane che si trovasse davanti ad una domanda di quel tipo. Cosa mai avrebbe potuto pensare? Ma guarda questo, vuole fare l’ingegnere e non sa né fare i calcoli ne’ le equazioni. Patetico.


Studiai con attenzione la descrizione delle mansioni e il profilo del candidato ideale, presi nota di tutte le possibili domande che avrebbero potuto farmi e mi misi a studiare tutte le parole chiave presenti, non nell’illusione di capire ogni domanda che mi sarebbe stata posta, cosa che ritenevo impossibile, ma per poter quantomeno formulare qualche idea che avesse un minimo di attinenza con il tema. Feci tutto ciò non perché mi sentissi particolarmente coraggioso, ma perché l’assessore cinese mi aveva detto di farlo, e neanche perché pensassi di ottenere quel lavoro, ma piuttosto per diventare più sicuro di me, imparando quelle parole nuove che mi sarebbero potute servire anche per altri colloqui. Il piano era chiaro: un po’ alla volta avrei migliorato il mio inglese e avrei potuto perfino ottenere un lavoro da portiere presso il British Refugee Council e da lì, piano piano, avrei potuto aspirare a un posto migliore, magari come consigliere per i rifugiati. Così inviai la mia candidatura per la posizione di portiere, cosa che mi sembrava assolutamente ragionevole.


Non avevo la minima idea di come avrei svolto quel lavoro senza avere la piena padronanza della lingua: potevo già immaginare situazioni surreali, in cui qualcuno mi chiedeva dove si trovasse la cassetta delle lettere ed io rispondevo in automatico: mi spiace, il sabato siamo chiusi. Che disastro. Per ora l’unica cosa importante era superare il colloquio; avrei pensato a tutto il resto a tempo debito. Così andai al colloquio e feci quello che potei, ma non lo superai e cominciai ad abituarmi a quelle risposte tutte uguali: siamo spiacenti di informarLa che per questa volta la sua candidatura non è stata selezionata… E come poteva essere diversamente? Però la perseveranza è una delle chiavi del trionfo, quindi seguendo i consigli del cinese, chiesi che mi dessero un feedback e cosi venni a scoprire che non c’entrava nulla il fatto che avessi capito poco o niente di ciò che mi era stato chiesto, ma il vero problema era la mia mancanza di esperienza come portiere in Inghilterra. Bisognava che avessi lavorato come portiere per almeno due anni, niente meno, tutto il resto non contava.


Qualche mese dopo apparve un altro annuncio del Refugee Council. Cercavano Project Workers, proprio così, con la maiuscola lo scrivono, e quando lessi la descrizione delle mansioni mi resi conto immediatamente che non avrei mai potuto svolgere quell’impiego. Si trattava di fornire appoggio ed assistenza ai richiedenti asilo in Inghilterra, e tutto era spiegato molto chiaramente, fin nei minimi dettagli, ed io leggendola cominciai ad immaginare cosa avrei potuto fare in tale posizione se solo avessi saputo bene la lingua. Un giorno succederà, pensai. Ad ogni modo decisi di inviare la mia candidatura, col solito scopo di andare al colloquio, fare pratica con le domande e le risposte e così magari, un giorno, essere scelto per lavorare come portiere, se mai un’altra occasione fosse sorta. Con mia grande sorpresa, mi chiamarono per un colloquio. La mansione principale sarebbe stata quella di fare consulenza e dare appoggio ai rifugiati … che responsabilità! Ci pensai a lungo e alla fine decisi di provare, così andai a quell’incontro con il terrore di fare una pessima figura, ma ci andai preparato, anzi preparatissimo. Andai perfino a trovare l’assessore cinese, il quale si congratulò con me e mi insegnò una parola nuova, “bold”, che significa audace. Il mondo è di chi osa, mi disse il cinese. Ad ogni modo avrei dovuto aspettare ancora due anni prima di ottenere un lavoro di quel tipo, ma da qualche parte si dovrà pur cominciare. Riempii tutte le sezioni del foglio per la mia candidatura, e di nuovo mentii, non solamente riguardo la mia conoscenza dell’inglese, ma dichiarai anche di avere avuto esperienze lavorative con richiedenti asilo in Inghilterra. Questa dichiarazione non era del tutto falsa, dato che in effetti avevo fatto del volontariato per un’organizzazione che aiutava i rifugiati, un po’ anche per fare pratica con la lingua, ma di fatto l’unica cosa che facevo lì era lavare i piatti, e lo feci solo per due mesi, un giorno a settimana, mezz’ora al giorno … insomma, ciò che stavo dichiarando era un’esagerazione della realtà. Ad ogni modo arrivai alla conclusione che mentire non era un problema perché tanto non mi avrebbero scelto.


Il giorno del colloquio mi sedetti davanti a tre selezionatori. Uno di loro era arabo, che fortuna! Lui lo potevo capire, ma gli altri due no. Delle nove domande che mi fecero ne capii solo tre, ma mi aiutai con le parole chiave che avevo imparato e la conoscenza perfetta delle mansioni che avrei dovuto svolgere e che avevo studiato a fondo su Internet che, a quei tempi, era ancora una novità. Non appena arrivai al colloquio cominciai immediatamente a mettere in pratica tutte le tecniche istrioniche che avevo imparato al corso di teatro quando ancora facevo il collegio in Venezuela: per cominciare, dissi ai miei selezionatori che avevo un fastidio alle orecchie in quanto ero in convalescenza da una rara malattia tropicale, ma aggiunsi che non c’era motivo di preoccuparsi, che non era nulla di grave, ma che se avessero avuto la cortesia di parlare piano avrei potuto capire senz’altro le loro domande, e fu così che non solo riuscii a farli parlare lentamente, quasi come se potessi leggere ciò che dicevano nei sottotitoli, ma anche a fargli ripetere più di una volta le domande che facevo fatica a capire. Quando il colloquio terminò, me ne tornai a casa prendendo lo stesso treno che mesi dopo avrei preso in quel pomeriggio di luglio, quando cominciai a riflettere su tutto l’accaduto e a ricostruire tutta questa vicenda. Pensai che quello era stato il primo colloquio che avevo fatto per un lavoro serio, ma avevo mentito spudoratamente e mi venne da ridere. Continuavo a pensare a quanto ero stato folle ad andare a quel colloquio senza neanche parlare bene l’inglese, e non riuscivo più a smettere di ridere. Poche ore dopo, ricevo una telefonata.


Dall’altro lato della linea una voce, che non riconoscevo, diceva di chiamare per conto del Refugee Council. Mi resi conto che era uno dei selezionatori, il signore arabo per essere precisi. Facevo fatica a capire quello che mi diceva, però mi sembrò che disse che mi volevano assumere. Dio mio, non potevo crederci! Eppure non vi era alcun dubbio: mi stavano offrendo quel lavoro. Dissi che sarei andato a parlare con loro in persona, perché a causa del mio problema all’udito non riuscivo a capire chiaramente quello che mi stesse dicendo per telefono. Così, andai di persona e non ebbi più alcun dubbio: effettivamente, volevano darmi quel lavoro. Se ne avessi avuto la certezza quando eravamo ancora al telefono avrei potuto inventarmi una scusa per non accettare, però dato che non capivo nulla di ciò che mi veniva detto, avevo deciso di andare di persona, ed eccomi in quel guaio. Immediatamente gli dissi che non potevo accettare quel ruolo perché la mia comprensione dell’inglese era limitata, ma la mia sincerità non servì a nulla perché l’arabo mi disse che non era un problema e che presto sarei guarito; allora provai di nuovo ad essere onesto con lui e gli spiegai che il mio problema all’udito non era poi così grave, il vero ostacolo era che io non capivo l’inglese, al che l’uomo ribadì che se con la mia scarsa conoscenza dell’inglese ero riuscito a rispondere correttamente alle loro domande durante il colloquio, significava certamente che avevo le competenze per quel ruolo. Sembrava non ci fossero vie d’uscita: o parlavo in maniera ancora più esplicita, o accettavo quel lavoro. L’ultima opzione poteva essere solo quella di mettermi a urlare: No! No! No! Per poi uscire da lì correndo, con le mani nei capelli come se fossi impazzito. Ma non ne ebbi il coraggio e accettai, e fu così che cominciai a lavorare come consulente in un paese in cui non capivo quello che la gente diceva. Tutta la gavetta che avrei dovuto fare, cominciando dal ruolo di portiere, la saltai.


Dal giorno in cui mi nominarono Project Manager al giorno in cui avrei dovuto cominciare a lavorare passarono due settimane. Per poter svolgere il mio lavoro dovevo innanzitutto essere in grado di identificare quali fossero i problemi che i richiedenti asilo dovevano risolvere e poi, seguendo le procedure della legislazione britannica in merito ai rifugiati, proporre una soluzione e presentare il caso dinanzi alle organizzazioni governative, private oppure sostenute da donatori, di competenza. In quelle due settimane imparai quasi a memoria il manuale con tutte le regolamentazioni, leggi e procedure e i nomi di tutte le organizzazioni con le quali avrei dovuto collaborare. Il compito non sarebbe stato impossibile se avessi avuto una buona comprensione della lingua, ma io non capivo quasi niente e sarei stato un buono a nulla sia come portiere sia come project manager. Come ho già detto, capivo solo quelle persone che parlavano un inglese simile o peggiore del mio e così, facendo in modo di prolungare le mie difficoltà auditive il più a lungo possibile, divenni un impostore professionista.


Il signore arabo, che risultò essere il mio capo, mi diede un piano di formazione che praticamente consisteva nell’osservare ciò che un collega, già navigato nel settore, faceva. Partecipavo quindi a quegli incontri e ascoltavo i rifugiati che parlavano nella loro lingua, che all’epoca era di solito il kurdo o lingala, una lingua del Congo, mentre con l’utilizzo di un traduttore veniva riportato tutto in inglese, ed io qualcosa capivo. Dopodiché, di tutto ciò che seguiva, non capivo più un bel niente: il project worker diceva qualcosa in inglese, il messaggio veniva tradotto in kurdo e finalmente partivano varie telefonate nelle quali il project worker parlava della questione con altri impiegati di qualche altro ufficio, chissà quale. Se tutto andava bene, non mi veniva spiegato nulla; altrimenti, mi veniva spiegato qualcosa ed io mi limitavo a muovere ritmicamente la testa in segno di assenso, come se capissi ciò che mi veniva detto, nel tentativo di nascondere la mia farsa. Un disastro.


Passarono i giorni ed io, che di notte analizzavo ciò che poteva succedere di giorno a lavoro, cominciai pian piano a capirci qualcosa. Ma arrivò il giorno in cui, per la prima volta, avrei dovuto fare qualcosa da solo per telefono, da casa; e quel pomeriggio di luglio era, per l’appunto, il giorno in cui camminavo verso la stazione col cellulare in tasca. Ciò che dovevo fare era piuttosto semplice: se qualche poliziotto a Leeds o in qualche altra zona della nostra contea avesse incontrato una persona senza documenti e nella posizione di poter chiedere asilo, la polizia avrebbe dovuto chiamare al nostro numero. L’unica cosa che dovevo fare era quella di rispondere al telefono, chiamare un taxi scegliendo da una lista di nominativi e fornire all’autista l’indirizzo di dove si trovasse la persona in questione, in modo da poterla accompagnare agli uffici di Liverpool per fare la richiesta di asilo. La settimana successiva, di rientro al lavoro dopo il fine settimana, avrei dovuto verbalizzare il tutto, così da poter inviare il pagamento della corsa al tassista. Insomma, era una sciocchezza, almeno per qualcuno che capisse l’inglese, ovvio.


Quel giorno quindi, mentre camminavo verso la stazione tra attacchi più o meno reali d’infarto, incidenti stradali e quant’altro, cercavo di convincermi che chiamare un taxi non fosse poi un’impresa cosi impossibile per una persona che parlasse un po’ di inglese come me, anche se non lo capivo affatto. Insomma, l’unica cosa che dovevo fare era quella di fornire un indirizzo, tutto qua, e aspettare che mi venisse detto un si o un no, nella speranza che l’interlocutore dall’altro capo della linea non avesse voglia di scherzare con me, non si sa mai con questi inglesi e il loro macabro umorismo. Il problema vero sarebbe stato capire l’indirizzo che il poliziotto avrebbe dato a me, in quegli anni in cui ancora non esistevano né GPS né social media. Nasser, il mio capo, si prendeva gioco di me: ma certo che ce la farai, ci sono riuscito anch’ io prima di te! Mi ripeteva da quando ormai si era reso conto che in effetti non capivo molte cose, e neanche lui capiva tutto ma sicuramente più di me. Si formò tra noi una specie di solidarietà tra “cripto sordi”, ma io ero convinto che avrei avuto meno successo di lui ai suoi tempi, e che a me sarebbe sicuramente toccato uno di quei tassisti con l’accento fortissimo e uno di quei poliziotti che invece di parlare più lentamente quando qualcuno non capisce, si mettono ad urlare e a ripetere tutto sempre alla stessa velocità. Continuavo a pensare a come sarei riuscito a gestire quella situazione e ad affrontare tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate. Nasser mi aveva rassicurato dicendomi che, al massimo, avrei ricevuto una o due chiamate durante tutto il fine settimana, ma che molto probabilmente non avrebbe chiamato nessuno. Misi nuovamente la mano in tasca e toccai di nuovo il telefono. Era lì, e sapevo che a causa sua la mia farsa sarebbe stata scoperta.


Passò il venerdì e nessuno chiamò; passò il sabato e il telefono non squillò. Cominciavo a sentirmi molto fortunato, considerando che mi pagavano per ogni ora che passavo con questo telefono alla mano, ma domenica mattina, com’era da aspettarsi, il telefono suonò. Era l’alba ed io, preso dal panico, avvicinai l’apparecchio all’orecchio e dissi, con voce tremante: good afternoon. Dall’altro lato della linea qualcuno cominciò a dire frasi in inglese a raffica, che io sapevo essere in inglese solo perché mi trovavo in Inghilterra, ma che se fossero state pronunciate in un altro luogo della Terra, avrebbero potuto essere in qualunque altro idioma. Capii solo due parole: good morning, pronunciate con un tono ben marcato. Chiaramente avevo già commesso un errore e il mio interlocutore me lo stava facendo notare, tanto per non dimenticare che a volte deve andare tutto storto. Calmati, mi dissi, e chiedi l’indirizzo. Immediatamente, l’uomo alzò la voce ma senza esagerare, come prevede il decoro inglese, ed emise dei suoni che io non riuscii a decifrare, ma mi ero preparato a quell’eventualità. Avevo imparato come si diceva che la linea era disturbata e di parlare più lentamente. Era una frase che avevo provato a dire varie volte, ma questa volta non riuscii neanche a terminarla perché il poliziotto disse qualcosa che io non capii e immediatamente dopo riattaccò. Respirai profondamente. Richiamerà, pensai. Quando il telefono squillò, risposi e l’uomo disse di nuovo qualcosa che non capii. Probabilmente, voleva sapere se potevo sentirlo meglio, allora io dissi, ancora una volta, che la linea era disturbata e che doveva parlare più lentamente. Con un tono infastidito, ripetè qualcosa e riattaccò. Chiamò una terza volta, e poi una quarta, e così via. Ad un certo punto, quando la mia autostima era già stata completamente distrutta ed ero in preda al panico, successe qualcosa. Pensai che forse la persona dall’altro lato del telefono poteva essere qualcun altro, magari un assicuratore o un addetto delle pompe funebri, quindi all’ennesima chiamata risposi e chiesi chi era. Per la prima volta, udii una vera e propria raffica di maledizioni, seguita dalla conferma che si trattava proprio di un poliziotto che chiamava da Hull, una città situata nell’estrema parte orientale dell’Inghilterra. Non avevo mai sentito parlare di questa città, quindi pensai che si trattasse della polizia della lana, wool in inglese, ma non feci nessuna domanda a riguardo perché sicuramente mi avrebbe risposto, con tono sarcastico, che proprio di quello si occupava, di star dietro alle pecore. Ma il peggio doveva ancora arrivare: quando chiesi per conto di chi avrei dovuto chiamare un taxi, mi rispose che era per diciotto persone. Esattamente così, diciotto persone, cioè avrei dovuto coordinare più di un taxi. Mi diede l’indirizzo e quando mi disse, lettera per lettera, il nome della città, scoprii che esisteva un luogo chiamato Hull. Dopo aver riattaccato, mi precipitai a cercarlo sulla cartina geografica, che a quei tempi ancora bisognava inventare Google Maps, e fu una vera impresa trovarlo ma ci riuscii e mi accorsi che non era affatto nelle vicinanze, ma situato estremamente ad est dell’Inghilterra, mentre Liverpool, dove bisognava portare quei rifugiati, era esattamente dalla parte opposta. Non che l’Inghilterra sia così grande, però una carovana di taxi sarebbe stata troppo costosa, e se l’avessi chiamata avrebbe sicuramente finito per azzerare tutti i fondi annuali del Refugee Council, o almeno così pensavo. Quindi dovevo trovare un’altra soluzione e pensai che le mie radici latine mi avrebbero aiutato, altro che quella rigidità britannica tanto osannata, di cui parlava sempre anche l’assessore cinese. Era ora di dimostrare quanto fossi creativo e capace di risolvere qualunque problema, e fu allora che mi venne in mente di affittare un pullman, anche se non avevo né i soldi né alcuna autorizzazione per poterlo fare. Chiunque abbia vissuto in Inghilterra sa che le cose in questo paese non funzionano così, e se mi trovassi nella stessa situazione oggi, neanche mi verrebbe in mente un’idea così stupida, però l’ignoranza e l’audacia vanno a braccetto e quindi ci provai. L’unico che possedevo erano un telefono e la mia capacità di persuasione, ed incredibilmente, ci riuscii. Il racconto completo di come feci sarebbe lungo quanto un romanzo di Tolstoy, anche se mi piacerebbe scriverlo un giorno, però sto già scrivendo un’altra storia, quella di una rifugiata venezuelana, e queste vicende sono solo un passatempo. Dunque, quando infine riuscii ad affittare quel pullman mi sentii orgoglioso di me stesso, anche se si era fatto quasi notte: tutte le amarezze del passato sembrarono addolcirsi e improvvisamente la mia vita aveva preso lo stesso sapore di un fondo di caffè, dove si deposita tutto lo zucchero, e mi ricordai con gratitudine, anche del mio amico, l’assessore cinese.


Dunque, il pullman era stato affittato e il giorno successivo avrei pensato a tutte le scartoffie burocratiche necessarie. Era costato meno dell’affitto di due taxi, quindi non solo avevo fatto risparmiare parecchi soldi al Council, ma avevo anche facilitato il lavoro della polizia di Hull, che non era stata costretta ad inviare una carovana di pattuglie per fare da scorta ai taxi. La mattina dopo uscii di casa presto, tanta era l’emozione di poter raccontare quest’ impresa vittoriosa al mio capo. In cammino verso l’ufficio feci attenzione mentre attraversavo la strada, perché adesso mi sembrava che vivere valesse davvero la pena, e pensai che la farsa che avevo inscenato per simulare la mia conoscenza dell’inglese era stata compensata dalle mia capacità di negoziazione, e così gli incubi che mi avevano perseguitato durante il fine settimana lasciarono posto a mille fantasie su come avrei raccontato quell’impresa. Il cinese aveva ragione, bastava fingere di avere delle competenze e far valere solo la propria audacia e professionalità. Quel fine settimana era stato come un corso intensivo di inglese, però alla fine avevo fatto risparmiare al Council parecchi soldi. Sarebbe arrivato anche il giorno in cui avrei finalmente cominciato a capire quello che mi veniva detto. Addirittura, pensai che all’assessore cinese era costato anche più tempo e fatica ottenere ciò che io avevo raggiunto così velocemente, e pensai al privilegio che avevo di provenire da una famiglia italiana colta, di aver studiato presso l’ ”Universidad Catolica” e di aver sempre avuto degli standard di vita alti. Per la prima volta da quando ero andato via dal mio paese, smisi di sentirmi come il povero immigrato che non capisce niente, ma piuttosto cominciai ad identificarmi come il depositario di una cultura millenaria, che finalmente prendeva possesso del suo posto in quella nuova società. Quei passi che avevo percorso con angoscia qualche giorno prima, li percorrevo adesso con orgoglio e soddisfazione.


Quando Nasser arrivò in ufficio, puntuale come sempre, gli raccontai la vicenda e si mise a ridere ma allo stesso tempo capii, dall’espressione sul suo volto, che non ne era affatto contento. Mi sentii un po’ confuso e pensai che forse, dato il suo background arabo, gli era difficile comprendere la mia maniera latina di risolvere i problemi, pensiero di cui, adesso che mi occupo di tagliare rametti d’uva e separarne gli acini, mi vergogno un po’. Mi disse che avrei dovuto parlarne col suo capo, Margot Cooper, che di solito arrivava sempre tardi in ufficio, ancora con la tuta da ginnastica addosso. Alle dieci, Margot arrivò e poco dopo uscì furiosa dal suo ufficio brandendo in una mano, come se fosse una bandiera, il foglio con la lista dei numeri di telefono dei taxi che io avrei dovuto chiamare. Urlando, disse: ma non ti hanno spiegato che devi usare questi taxi per andare a prendere i richiedenti asilo? Come al solito, capii ciò che diceva dai suoi gesti e da quel foglio che mi stava sventolando in faccia, ed anche da qualche parola chiave che riconobbi quà e là.


E fu da lì che cominciai a capire che il vero commediante, in questa storia, non ero io ma l’organizzazione per la quale lavoravo, a cui non importava nulla di fare le cose per bene, ma solo di farle secondo il protocollo, e a cui non interessava affatto ciò che una persona capisse ma solo ciò che dicesse, e che non aveva a cuore il successo delle proprie azioni, ma solo le procedure. L’unica maniera che avevo per potermi integrare con i miei collegi in quell’ufficio era quella di lasciarmi corrompere da quel sistema, cosa che in un principio feci solo in parte, e poi smisi di fare del tutto, ma questa è un’altra storia.

 

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domenica 12 luglio 2020

Zamani, the monster

 Per versione italiana di questa storia, premere qui



We discovered our windows were bulletproof the day the monster decided to smash his head into one of them. That same morning we found him tossed onto the ground, all bloodstained and halfdead. We imagined he’d had a fight with someone but, while we waited for the ambulance, we checked the security cameras and saw that Zamani, the monster, had arrived with a solid brick in hand, the type that can only be found in Yorkshire. He was determined to shatter all the glass in our windows. He threw the brick with brutal force and it bounced back like a tennis ball, fracturing his skull, knocking him unconscious and leaving him in a gory state.

 There’s nothing worse for an enraged spirit than unleashing his anger with violence only to become the laughing stock of his surroundings. Our manager, who we would all call Debby to mark our democratic spirit, could not help but laugh when she learned about unfortunate Zamani, and she was the only one, along with the administrators, who knew about the change, , because every week somebody would break a window during the  night, until the one day she resolved that bulletproof windows were what was needed.

 A few weeks later Zamani appeared in our office. Helenka, the receptionist, rushed over to tell me to deal with him. I had a reputation of being good with difficult clients.

 -Fab, there’s a pretty pretty guy here. Can you take care of him?

 -Of course- I said without hesitation. Nobody liked dealing with violent, dangerous, or cry-baby clients. But I was of the view  that these were the only  interesting service users. Partly due to my ethical predisposition to help those most in need. But partly due to a very selfish reason. It had become a game.

 Yes, a game. Dangerous, but a game. And fun, too. I learned this in Venezuela from the famously untamed llaneros. I remembered once the pride with which a brave tamer said that he’d mounted the wildest horse, an impossible mare, and had left her meek. And so it was that  one day I said to myself, "with clients I will do the same".  So if one of them arrived in a serious sweat, furious, red, with  protuberant veins, bulging eyes, a contained scream, and clenched teeth I would say to myself, in silence:

 -Here you are papito... I’ll have you meek in no time.

 Little by little I became the expert in all types of fury and Hallucinations. And my dear Helenka knew of my longing to deal with all kinds of demonized clients and for that reason she immediately called on me to deal with Zamani.

 -Fab, he's the one who broke his head with the brick, he's furious. He still has a bandaged head. Doesn't speak. Says nothing. His eyes are going to pop out. Right up your street. - Helenka said to me, laughing, for she didn't understand how I could be mad enough to deal with someone like that. But she knew the other option was to call William, Paul or Vicky, and they’d end up reciting the institutional mantra, very much aligned to our policies, that we simply do not tolerate assaults or insults. Helenka knew our policies all too well, without Vanessa or I everything would end up with the police involved. Zamani would punch the table, break something, yell, throw a chair against a wall, and the security guard would come, and with his black belt of I don't know how many martial arts, he would tie him up and ten minutes later the police too. For that, and more, Helenka adored me.

 -Please Helenka, try to tell him where the door for the security room is. I’ll wait for him there.

He came in  through the door on one side of the room, I came in through the other. Both at the same time. The security guard followed behind him.

 -Please leave me alone with Mr Zamani, I asked the security guard.

-Are you sure?

-Yes.

 I sat down in my chair, facing the desk where my computer was placed, and he sat in front of me.

 -Good morning Mr Zamani.

He did not answer. He put one elbow on the table, with force, as if he wanted to break the table. Then his other elbow. Then he leaned forward a little to put his hands on both sides of his face, his elbows firmly fixed to the table. I was calm, or at least calm in appearance, let's say that if someone had looked at me, they would have said yeah, that guy is calm, but I couldn't have been because I am really rather terrible with physical attacks - at school I was the worst at fighting, in any case I just defended myself with words, don’t get distracted, Fabrizio, you know nobody is interested in that so go back to telling the story, and as I was saying  I could see that elbows on the table were aggressive, but people that are after a fight don’t put their elbows on the table. My expectation was that it would end well, but I knew that with the faintest negative stimulus the man would jump me. I waited for a bit and Zamani didn’t return the greeting.

 -I’ll do my best to help you, -"I’ll wait for you to explain". I waited patiently for his response.

And I waited. I didn't rush to follow the procedures that were specifically outlined by the organization where I worked. The first step was to ask for the name, confirm the person’s identity, ask for their identity document and to confirm date of birth, nationality and so on. If my boss had been supervising me, she would have already marked several Xs under "things to improve". I of course ignored that procedure, or to say it in true Venezuelan, which is how it should be said here, I passed it through the very lining of my balls. This guy was furious and needed to be heard, to let it all out. I waited, then added:

 -I’ll wait, don't worry, I'm here to help you. 

And Zamani only moved his chest for take deep and controlled breaths. His arms were thick, muscular, and his veins were visible. I imagined that the air he expired when he breathed came out hot and vaporous. It seemed as though he wanted to avoid an explosion.

 And so that he didn’t explode, I continued to wait  a few seconds longer. “Maybe he needs his adrenaline to drop”, I thought, a little worried about my safety. I visualized my escape plan in case he jumped across to strangle me, since it looked like I wouldn't have time to activate the emergency button. And just when I glanced at the door, I saw my manager beckoning me through the window with a gesture, something along the lines of “we-have-to-talk". I didn't pay any attention to her, of course. And I focused on Zamani. Nothing happened after allowing a reasonable amount of time to pass so his adrenaline to drop, what do I know if I am not a shrink, but thus, unarmed:

 -I'm here to help you, Sir -I repeated, and left a short pause to add - And to help you I need to know what's wrong.

I waited for a few more seconds to pass, which felt more like hours to me, possibly also for him, but I knew that this phrase needed to break into his consciousness, of which there was little. Little, yes, but enough to get him here, the right place to get help. Like a true Venezuelan I know very well how to react in moments of extreme tension because we’ve all gone through the training of being detained by the terrible Guardia Nacional, the fearsome malandros or any of the new police forces created by the dictatorship which I was spared the doubtful honour of meeting. Anyway, I tried to hold the silence for as long as possible so that the discomfort made him speak.

But I was the one that  felt uncomfortable when out of the corner of my eye I saw the manager making a gesture to me that I pretended not to notice. And it suddenly occurred to me that the problem was perhaps that neither of us spoke English as the primary language. So in slightly tarzan-esque English I repeated:

 -To help, I need to know. I know, I help, I don´t know, I don’t help. You tell me, I help.  

Nothing. There he was; still looking at the table. Firm elbows.  His head propped up by his hands. There wasn’t a single movement coming  from his extremities, only his breathing, always heavy, deep and sonorous. For me it wasn’t altogether easy to imagine what he was feeling. He was frightening, rather than pitiful, and that's why I continued to play tamer.

Certainly, I didn't yet know he’d been accumulating rage since he was a child. Less still, that his fate by birth was not to become a traumatised child, but the spoiled child of an Iranian upper middle class, with studies abroad and all the sophistication of Persian culture. He had a quiet and privileged childhood in Tehran. He had not learned much about the Islamic revolution, as he lived in the protected world of his home, which included domestic workers, and frequent visits from family and friends of his parents. They frequently travelled to Turkey, where they would go to the beach, and his mother enjoyed the markets of Istanbul, a city she preferred to Paris or Rome. But master Zamani was not impressed by Anatolian beaches because he preferred to play in the pool at home, originally built for an English diplomat, always clean and more often than not featuring some carefully selected family guest. Who would have thought that this child would have metamorphosed into this monster that everyone feared?

 -Take your time, Mr. Zamani. I am also a foreigner and I have become very angry in this country. Not everyone understands us, I know. 

And I decided to wait a few seconds longer. Maybe minutes. But hours according to my warped perception of time. And I was trying to understand what he was thinking but he didn't give me such a kinetic indication, his body motionless. I only managed to suppose that the night before the incident of the vengeful brick, Zamani travelled across the north of the city of Leeds, went downtown, grabbed a huge brick from a nearby building site and walked south of the city. He arrived  at our office to release all the anger he had against us, the Home Office, the United Nations, God and life. And all that with a brick against the vengeful window; and this time, as with all other occasions both in this country and in his native Iran, he was down on his luck, and with all his muscles he merely managed to get  bricked by the window in return. Poor Zamani.

And poor me, that the man was still silent. And poor me that the manager had disappeared and the internal phone had begun to ring, and I knew why. Obviously the manager, Debby. I unplugged it. My full attention available for Zamani once more .

 -I don't know what happened to you, but things have happened to me in this country too, that's why I came to work here, to help people like you, people like me.

I still didn't know what his problem was, but it was easy to guess from his fury that he was in a grave situation , or at least according to himself. For my part, I had to make him understand that there is a them and there is an us, there is a “you-and-I" that is us. It’s not very fair to my colleagues, but it’s the way to break this barrier. But nothing worked. He was still there, pinned down. I could still hear his breathing. His elbows were still pinned firmly to the table. Still I couldn't see a single sign that he was hearing  me, that there was empathy. And of course, I hadn’t yet learned that his family fell into disgrace due to his father's political membership, and that the revolution stripped them of all their privileges at great speed. The final privilege to be lost was his mother's freedom to wear a half-covered veil, in clear contravention of the rules imposed by the Ayatollahs and rigorously imposed by the moral guards. While still  accustomed to the privileges of being a wealthy child in an unequal society, he was forced as a child to see his mother stoned to death following a brutal trial. And with each stone came insults, to add humiliation to the pain. Every stone the mother received wounded him in the chest with a burning pain that would never leave him. And so he saw her die. And she died not only with the pain of stones and humiliation, but with the pain of seeing her son watching, to add more suffering. What a death!

 I kept asking myself how to break the ice. I couldn't let him go without solving his problem or he would kill someone, or would kill himself, or he would throw another brick at a window, preferably not ours again. And the manager reappeared at the window with her talk-later or I-have-something-to-say grimace. I made a gesture for later, a gesture indicating to wait, hoping for the best ... I waited a while and said:

 -Listen , Zamani, we’re not from the Home Office here. The Home Office is often wrong, maybe we can help you.

 I waited some more. Nothing. I kept waiting.

 -Zamani, listen, I need to help you. Look, I'm not doing it for the Refugee Council. I do it for me. To give my life some peace. I came to help because I want to help people like you: but I can't help you if you don't tell me the problem.

 And he finally looked up. He looked at me and made a gesture as if to say  "yes", yes something. I waited. I thought; "Looking at me, he won’t bear the silence," but he held on. And I had no choice but to carefully process his gaze, of only a few seconds, but it’s very intense when a gesture is all you have to go on to understand somebody. He had that look of doubt, of enquiry and of will-you-be-the-one-who-understands? A look of I can't cope any longer.

Until finally he took out a bunch of papers, documents, and various things he had in his pockets. They were wrinkled, folded, stained with coffee. I took the papers and saw notifications from the Home Office about housing…and also that one about his “liability to detention”, in other words that they can put you in prison without reason, for the simple fact that you  applied for asylum, for, you see, claiming asylum is your human right, but for asserting your right they can put you in jail, as vulgar as that, almost as much as Chavez threatening to put people in jail by national TV broadcast. Now here they’re more “civilized” than in Venezuela or Iran, they have judges with white wigs, and what they do is send you a little letter with your name and current address, and later on the judges with white wigs don’t question the legality of putting you in jail without having committed a crime. Civilised my arse. Callous beasts. This letter is not exactly comforting when they hand it to you while informing you that they’ll analyse your asylum application and you’ll have to wait for months or years. Years in limbo - better limbo than hell - but with the threat of hell, and to make it more pleasant, years you can be detained, just like that, for nothing more than ‘a stitch in their ass’, as they would say in Venezuela.

That letter, that piece of paper saying liability to detention always came up among the documents of refugees. It was one of many. It was never relevant. And yet there he was yelling at me about the injustices of the world. I am Venezuelan, just like Carlos, just like Sofía, just like my mate Arturo, the scientist-turned-entrepreneur. But there’s something different about me, something for which I cannot take credit. I’m also Italian, my parents are. It’s written in the Italian constitution, article 4.  It’s just their luck that the others receive this letter and I do not. For me if I go to prison it’s because I’ve killed somebody, no matter how stupid they are. Or I’ll go to jail for writing these stories, who knows. Or because some story offends one of these white wigs from a bygone nineteenth-century era. And now, in leaving the European Union, Europeans get goosebumps because of their newly insecure status, and look at Zamani, his status permits detention and deportation to hell rather than the horrors of Paris or tortures of the dolce vita.

 I kept looking through the papers. I read about articles that spoke about  his mother and father when they were arrested. I read an Amnesty International petition for his father. I read about their sonorous cases, years ago. I also read and learned about his childhood by reading testimonies from his parents' relatives in Canada and Germany. And I got to the letter that had led to his current state of alienation. "Your asylum request has been denied," it said.  

A few sentences later, this was followed by "there are no reasonable grounds  for your fears " because "the experience suffered by your mother, father and older brother are not related to your own circumstances..." which, by the way, is correct, if it’s being analysed by a computer that has been programmed by an extra-terrestrial robot. How can they say that his fear is unfounded because he wasn’t killed and that they will therefore not want to do anything to him? What kind of reasoning is that? Malparidos

You have to eat a lot of tinned ravioli to think like this. Or could it be the effect of  fries with vinegar? I kept looking and it was not easy to reassemble the sheaf of papers that made up  his asylum application because they were folded, curled, and unstapled. Filled with tiny little words, handwritten in Persian, underlined, fist marks, and of course, they were torn and stuck back together with sticky tape, all sorts, and with all kinds of marks to make you think the documents had been on tables, floors, trash cans, dumpsters. The papers had been  trampled on, spat on, insulted. When those sheets of paper left the factory, they didn't know they would go through so many forms of harassment. They were themselves wondering what could possibly be said by these words that could drive someone so crazy.

 -You’ve come to solve this problem, I imagine? I said showing him the document in which he was denied asylum.

 Zamani finally moved. He stared at me and something in his eyes said you get it, at last someone who understands. But right then during that magical moment,  the manager, Debby, appeared. She first appeared through the window, and then, breaking common practice  and the established protocols, she opened the door.

 -Fabrizio, sorry, but can we talk for a minute?

 I looked at Zamani to see if he looked like the type to smash her face in, which would have been convenient for me, so she can learn for once and for all not to interrupt these kinds of sessions. But unfortunately Zamani was more reasonable than Debby, so the manager managed  to keep all her teeth, preserving the work of her dentist, and leaving her uneven jaw bones, intact. I looked at the manager again and said:

 -Sure Debby, I'll be there in a moment,- I said, knowing that I had no intention of interrupting the session with Zamani.

-If you could come now, that’d be better, she said with a face of "once-again-Fabrizio-you-just-do-what-you-want"

 Zamani looked at me and somehow saw my face of "this-bastard-doesn't-understand-anything".

 -English people- said Zamani.

 Victory, I thought. This Zamani is more reasonable than the boss, as expected. So I made a gesture to Zamani and asked him to wait for a moment. I went to the door and walked out of the room. From the corner of my eye I saw Zamani saying no with his head and he repeated:

 -English people.

 When we went out Debby, with her cryptic smile and her usual rictus, showing her dentist's teeth, began her sermon.

 -Fabrizio, there are procedures. And today there are special circumstances. We have many service users so you have to be quick with this client.

 -Don't worry, Debby, I'll be as fast as possible.- I said knowing that I wouldn’t do it and that I would get into trouble, but at least the trouble would come later.

 -What's his problem?- She asked.

 -They denied him asylum.

 -Ah, something simple,- she said with a look of someone that knows it all - Refer him to the immigration office to arrange the return to his country and that way he can complete his section 4”. Section 4 is  the bureaucratic jargon used to refer to a request for financial support, by means of supermarket vouchers and temporary housing, while a return is being organized.

 -Ah, section 4, what a good idea,- I said knowing that this was a bad idea, let alone being far down the list of Zamani's priorities, although nobody cares about that. Not to mention that if the first thing I’d said to Zamani had been that his only solution  was to get packing, he would do nothing less than pack his things and go to Iran and make friends among the Ayatollahs, in any case, if I recommended that, the only things that would need packing would have been  little fragments from my  head, skull on one side and brains on the other, to send them back to Venezuela together with my coffin.

-Remember not to take too long-, Debby told me, - so far from what I thought and what I wanted to say: "Sure, motherfucker."

 And I was about to open the door to return  to the room with Zamani when Debby stressed:

 -And remember you’ve got to follow the procedures, Fabrizio. You need the security guard. He’s a dangerous person and we have confidential information saying he’s intransigent,” and she gave me a little pat on the back and a wink as if to say“you’re-a-naughty-child-and-we-need-to-keep-an-eye-on-you”.

 -He’s calmed down now, don't worry” I replied “and I don't think he’s too intransigent” I said, without adding, since I wasn’t yet aware myself, you are far more intransigent, after all she was the one that  hadinterrupted the session to tell me to hurry while he, who fears for his life and saw the death of his assassinated mother, agreed to the session’s interruption. And I suddenly become lost in the thought of  her ease to classify him as intransigent. And it does happen to me that sometimes I get stuck wrapped up in the things that people say, especially when they’re very  stupid and I cannot respond. And I said to myself  what about you, motherfucker, are you really so tolerant and open to negotiation, you call him intransigent and you interrupted me lots of times,what would you do if you punctured your shitty fucking bicycle, and you criticize him for being intransigent, go fry a monkey as we say in Venezuela. 

 -Are you sure?- she said.

 -sure about what?-; My thoughts had made me lose track.

 -What else would it be, Fabrizio, that he calmed down.

 -Oh, sure, yes. I'm completely sure” I said, not being sure in the slightest, but I needed at all costs to avoid having a security guard put inside there. It would have destroyed the atmosphere that we’d only just managed to build.

 At last I returned to the room where Zamani was. What a relief. I sat down. Took a breath. In truth, I  was rather missing the bulging veins, and the elbows firmly nailed to Zamani’s side of the table. Much better than that crazy woman with her worthless institutionalism that forces me into being a hypocrite.

 -What did your boss want?- said Zamani.

 -Nothing. It doesn't have anything to do with you, don't worry. It's that we have a problem with the alarms, do not worry” I lied. Of course I wouldn’t tell him that she doesn't like us solving problems to do with access to justice.

I took the handful of papers that at some point were the answer to his asylum request into my hands . I already imagined, as  was often the case, that his problem was that the lawyer didn’t want to continue to represent him but Zamani wanted him to continue. The logic in this country was very simple. Lawyers are paid by none other than  the Home Office itself, and the condition for payment is that they win 50% of cases or more before a Court of Appeal. That’s in Anglo-Saxon parlance, because in Venezuelan we’d be a little more prolific in our explanation, in other words that it’s is like a bet of sorts between the Home Office and the lawyer, and in this bet the Home Office says something along the lines of :

 Hey lawyer, come here , something ‘ere for the both of us, so let's bet.  If you beat me for half the cases, I’ll pay you for all of them; if you don’t, you’ll lose your contract, go find yourself another job and write stories with Fabrizio, which  nobody reads, or you can both go sing Mexican rancheras together in the London underground. Wanna bet?

 “OK, says the lawyer that has a mortgage to pay, on top of dental treatment for his children who need to smile like Debby.”

 Well, the idea of the bet is not a bad one. It has allowed capitalism to survive all its mistakes, but we are in England, and this must never be forgotten: there’s always small print and the small print is the only thing that counts. So to place its bet the  Home Officesays, again in good creole Venezuelan:

 "Well, mate, I’m not going to pay you for all your work, only for a very small number of hours, not many, I don’t want this to be a walk in the park for you, and if you start to investigate and get interpreters, hey pal, just let it be known I won’t  pay for any of those little luxuries, not even the luxury of understanding what it is that your victim’s got to say through somebody that speaks their language, don’t take me for a fool, no soy pendejo,  hell, I don’t need to tell you that if you start to find out exactly how it is that everything we make up is a lie, well it’ll come out your own pocket and you’ll lose.  Up to you. We’ll go halfsies. There’s enough bacon to go around here.”. 

 The Home Office pays the solicitor a set number of hours. And if the case can be appealed using a simple copy-paste from other cases, asylum seekers have a chance, if not, then no. So lawyers, who believe in justice and who are democratic and support human rights, end up more committed to staying afloat on easy money, instead of combating injustice at their own cost. As such, having registered the situation, I asked Zamani: 

  -So you want us to find you a lawyer or do you want us to talk to yours?

-Please,- he said. As if the answer was clear. 

  -Do not worry. The first thing will be to call your lawyer,- which would apply to whatever obvious response he thought he’d given. .

I called his lawyer. The receptionist answered. After some formalities and generic greetings she told me: 

  -Oh, excuse me, but what nationality is our client? 

 -Iranian. 

-Oh no, it can’t be done.

-What do you mean can’t be done, why?

-I’ve been instructed. No Iranians. 

-Well, I understand that,”-clearly there is much to understand. It’s shameless discrimination and confirmation that, in this country, if there’s a particular kind of fuckery that is not banned, forbidden, prosecutable, then that is exactly how they’ll fuck you over. Asylum claims aren’t assessed on merit but by discrimination on the grounds of nationality, wow.. 

  -Can I help you with anything else?- She recited with the usual do-not-bother-more-with-this-issue tone, and get-ready-to-turn-the-phone-off-without-you-being-able-to-say-that-I didn't-give-you-the-courteous-opportunity-to-talk-about-something. Typical. 

  - Yes, I understand, no Iranians. But this person used to be your client. He waited for years and was counting on your services as their lawyer and all of a sudden he’s abandoned, just like that. No further details..

 -Well, a lawyer reviewed his case and he received their letter. His asylum claim lacks evidence, it is weak.. 

  And how do you know if you are a secretary without legal training? I felt like asking. But it wasn't worth it. I had long known the explanation, it's very simple: If your client is Iraqi, your asylum application will be accepted, if they’re Iranian, it won´t. In Germany judges were of the opposite view.  But it couldn’t end here. 

 -And, apologies, how do you know that got everything if you don't know who I'm talking about?  

 -What’s the name of the client, please? 

 -Don´t-remember-his-first-name Zamani.

 -Date of birth? 

  And we continued the  standard  data privacy protocol. 

  -Well, as I said before, Sir, it says here he received his information. He doesn’t have a strong case. As far we’re concerned the case is closed, I’m sorry.-

 -I am sorry,” repeated Zamani, from his chair. From the tone he was using I was made to  think that he must also scoff at how much they say I'm sorry when this is far from how they feel, especially when their tone indicates only their great contempt and disinterest. For my part, I wanted to shout at her that they’re a bunch of penny pinchers, they have no commitment to justice, but my rage could only lead to them filing a complaint against me, although risking a complaint was perhaps worth it, I could have thought, at least that way Zamani would know I was on his side. 

  - The British are like that, I can imagine what she is saying,” said Zamani, having guessed the receptionist's replies correctly. .

  And I began to realise that Zamani knew surprisingly more than what it first seemed about the country where we lived. On the one hand, I wanted to tell him that there are English people who are not like that, like Sue. But greater was the temptation to yell at that secretary so that he understood I was on his side. But by the time it got to this point  I gathered he must understand that I had no choice but to uphold professional etiquette, where being professional means being indifferent. And as soon as I finished the phone call, Zamani told me: 

  - Well, now is the time to look for another lawyer, one that believes in justice.

  I suddenly confirmed that I was dealing with someone of great intelligence and not some wild beast, no matter how mad it was to throw stones at our bulletproof windows. No wonder that when I asked him whether to call his lawyer or look for another he simply said "please". He already knew the script in advance. What a relief, finally. Now I was going to look in my notebook for an Iranian lawyer’s phone number, of Italian culture, who had studied at the same university as my father, La Sapienza. I wanted to tell Zamani about this lawyer, to whom by the way I certainly enjoyed talking to, and who would reward me for allowing him to speak Italian by taking on more Iranian cases than was reasonable. But luck is often in short supply and at that moment, just then, Debby appeared through the window again. Again with her I-have-something-to-say grimace and circular hand movements, akin to a robot. 

  - There's your boss again- Zamani said, and pounded his fist on the table. 

 -I'm going to call a lawyer who I think could help you.- I said ignoring Debby.

 -I'd prefer if you call this one,- and he pulled out a card. 

 What a great coincidence. It was the same lawyer. Except this wasn’t at all a coincidence; it’s not like there were many committed Iranian lawyers, and in this very region to boot. I started to dial the phone number, but Debby came in with the security guard. 

  -Are you all right? 

 -Yeah, fine 

 -Please can you come out for a moment?

-Of course, as soon as I finish, I'm on the phone with someone.  

-You can call them later. 

-No, I can't, I'm on hold because they’re looking for some documents for me, they’re on the other line and asked me to wait- I lied, holding the phone right up against my ear  so that she wouldn’t hear the monotone beep indicating that the line was busy. 

 -Ok, I'll wait for you,” said the boss. And she left. 

 -What do you think she wants- asked Zamani as soon as the door was closed.

 -Nothing. She wants me to hurry up and was frightened by you punching the table. She thought you were going to kill me,- I said jokingly. 

 -What can I do to give you more time? 

 "Fill out a Section 4 form,” and I gave it to him. 

  As the lawyer did not answer due to the line still being busy, I went out to speak to the boss. After many questions on her part I explained that Zamani had decided to apply to Section 4. The boss congratulated me. I went back to Zamani. 

  -We have a few more minutes, Zamani,- I said. 

  I dialled the number again and realised that there was something absurd about the situation. How is it possible that Zamani had this contact and gave me the phone number but he hadn’t called the number himself or appeared at their offices. I thought this guy was smart, and he didn’t seem shy at all. In fact, he came in like the Hulk wherever he went, and I simply could not square the two together. 

 -Do you want to speak once they respond?- I asked. 

-Do not!!! Please! That's the problem; the secretary won't let me speak to the lawyer.

 Suddenly I remembered that my dad once said something along the lines of to have a friend who’s a minister is to have a good contact but is of little use without making friends with their secretary. And here was Zamani giving me evidence that my father's sociological intuition was correct. I waited on the phone, the famous secretary, who held the keys to power, answered, until I finally spoke with Izadi, the Iranian lawyer. We had a relatively long conversation as a greeting, without mentioning  for whom I was making a referral. Izadi just liked to talk in Italian, whatever the topic. But when I told him about Zamani, a cold water bath fell on me, which luckily was in a language that Zamani did not understand. 

 -Me ne vado, I'm done, I'm leaving. I'm moving country. I’m going to Canada where I have family and where I don't have to go through the things that happen here

  -I'm glad for you, Izadi. I’ve heard very good things about Canada. Many friends live there and love that country. Lucky you. In bocca al lupo

  -Hey, why did you call me?” 

  -I wanted to refer you to an Iranian client. Typical case where lawyers appear to represent their clients, but when it’s time to take it to the court for appeal, they say the  case is weak. 

  -I won't be able to take the client, sorry. My departure is imminent. 

  -I figured Iza, but can't you leave the case to one of your colleagues? 

  -Impossible, I already left them a lot of cases that they think are lost. My clients will be abandoned. 

  -Well, Iza, that's a shame for my service user, I'll let him know. Again, in bocca al lupo, good luck. 

  Now it was time to talk to Zamani. I tried to gather my strength. How do I tell him that the Iranian-friendly lawyer who also speaks Farsi is leaving the country? I was about to speak to Zamani but Debby, the manager appeared again. 

  -Fabrizio, can we talk for a minute?”

 -Well, give me a second with Zamani and I'll go outside and we can talk.

  She left and Zamani came to my rescue, in the most unexpected way. For a second I thought he had understood the conversation, but I realised that no, was simply helping me control my boss. 

  -Hey Fabrizio," said Zamani" tell her I'm going to commit suicide. 

  -What do you mean? Are you going to commit suicide? 

  -Do not be silly. Listen. If you tell her I told you I'm going to commit suicide, we have more time to talk" and winked" You are going to have to follow another protocol. You can  make sure  that everything in the notes is fine and that's it! And in the meantime we can continue speaking with the lawyer.   

-Ok, I think it's a good idea," I said, admiring his cunning.

  But even if the idea were a good one, unfortunately it could actually happen that Zamani would be driven to thinking of committing suicide, if he found out that the lawyer that has any hope is leaving the country. It was ironic that the Zamani monster helped me control the personification of the bureaucracy by pretending to say something that he would probably think when I told him what I had to say. I went out to talk to the boss with a thousand ideas entangled in my head. 

  -Hello Debby, I have a delicate situation- I said. 

  -Fabrizio, you have to finish. You have to be professional. It can't be that it takes you so long to fill out a worksheet for a section 4! I know you're a good member of staff but you have to respect the boundaries. Again, she looked at me and I could read her expression as  “Fabrizio, you are a nice cheeky child but we have to control you”. 

  -Debby, he just told me that he is going to commit suicide.

 -Well you know what you have to say. Go and make sure to refer him properly so that they take care of his mental health. And don't forget to write your notes very carefully. 

  -Sure.- And I went to talk to Zamani. 

  I went to talk to him and he immediately asked me: 

  -You got rid of that monster? 

  -For a while. I'm supposed to refer you to specialised medical services and alert other organisations about your intentions 

-And you forgot that you have to tell me that you have to breach my expectations of confidentiality because you have to protect a life.

-Exactly.

 I explained everything to Zamani about the lawyer. Poor man. I followed the procedure for referrals of this kind, of course. And we agreed that he would return so that we could  refer him to lawyers in London. He told me that he knew lawyers in London. And Zamani left calmly. Very calm indeed. I was happy because he helped me control Debby, which turned out to be a far more difficult endeavour. 

And a few weeks later the boss called me to her office. She had an indecipherable face. And she said: 

  I have two bits news, one good and one bad. We start with the bad”

 -Okay.

 -Zamani committed suicide.

 -And the good one?

  -They were investigating you. You did everything right. You referred him, you alerted the competent authorities, you disclosed the information according to the Data Protection Act, followed all the procedures and you wrote perfect casenotes. All very professional.

  -Thank you. 

Translated by Fabiana Macor