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Ricordo ancora quel pomeriggio di luglio quando uscendo dal lavoro, cominciai a riflettere sulla mia farsa e di come fossi convinto che sarei stato scoperto di lì a breve, forse durante quello stesso fine settimana. Quello che ancora non potevo immaginare era in che tipo di casino mi fossi messo, e ancora meno quanto fosse grande. Avevo un’idea di ciò che era ovvio, ovvero che mi avrebbero scoperto, e dato che avevo anche mentito per ottenere quel lavoro, avrei pagato con la più grande delle umiliazioni: il disonore.
Ricordo che quel pomeriggio di luglio camminavo per strada come se stessi fuori di me, mentre pensavo a come ero finito in quel guaio, proprio io, che soffro d’ansia e mi angoscio per ogni cosa, perfino quando vedo un film dove il protagonista rischia di non essere capito e finisce per litigare con la moglie. Questi film mi danno le palpitazioni e devo spegnere il televisore per evitare di sentirmi così angosciato. In quel pomeriggio di luglio, sentendo che le mie bugie sarebbero venute presto alla luce, mi venne un forte dolore al petto che mi lasciò quasi senza fiato. Per prima cosa sentii le palpitazioni, poi la nausea che precede l’infarto, come mi succede sempre da quando sono diventato ipocondriaco; infine sentii che il cuore mi fuoriusciva dal petto e mi sembrò quasi di non poter più respirare. Per calmarmi, provai a sforzarmi per accettare l’idea che quella farsa avrebbe potuto raggiungere la fine, e l’unica cosa che mi rimaneva da fare era ragionare.
Cuand’è che sono diventato un commediante?, pensavo. Conoscevo la risposta: fu il giorno che ascoltai parlare l’assessore, il cinese, quel responsabile dei rifugiati che si atteggiava come se sapesse tutto lui. Effettivamente fu proprio lui a convincermi che una farsa fosse l’unica via percorribile. Quindi non mi rimaneva altra cosa che diventare un impostore, anche solo un pochino, insomma un commediante. Mi sforzavo di ricordare se quel giorno ci fosse il sole, cosa rara in Inghilterra, o se stesse piovigginando come al solito. Ma di cosa potevo rendermi conto, di un bel niente! Ero cosi assorto negli incubi che facevo ad occhi aperti che mi dimenticai da quale lato provenissero le macchine e così, nell’attraversare la strada, quasi vengo investito da un furgone che arrivava dal lato corretto, dal cui abitacolo fuoriuscirono immediatamente delle parole di insulto che non avevano niente a che vedere con le parolacce che diciamo in Venezuela. Dato che quell’uomo alla guida non riuscì a proferirne neanche una che fosse così azzeccata da tirarmi fuori dai miei ragionamenti, proseguii sui miei passi, perso tra i miei pensieri. Forse se avesse minacciato di uccidermi, mi avrebbe fornito una buona soluzione. Non è che io sia uno stravagante per vocazione, è ciò che mi succede ad esserlo, ed io semplicemente mi adatto. Tutti coloro che mi conoscono sanno che di fondo sono una persona corretta, o per meglio dire lo sono stato, con qualche piccola eccentricità quà e là, ma niente di grave.
Tutto cominciò il giorno in cui parlai col cinese, anche se ad essere sinceri neanche era un cinese, anche lui era un altro commediante, lui stesso me lo aveva detto, però questo lo racconterò in un'altra storia. Questo cinese, che non era cinese in realtà, mi aveva detto che lì in Inghilterra, non è importante quello che sai fare o ciò che hai fatto e studiato nel tuo paese di origine. Cosi mi disse, ed io in qualche modo avevo cominciato a capirlo, non bene come lo capisco adesso dopo aver vissuto qui per tanti anni, ma come qualcuno che ha già superato la fase iniziale, dove sei come un turista e ti sembra che tutto vada più o meno bene.
Il percorso dall’ufficio alla stazione non era lungo, però a me sembrò che durasse in eterno, tra attacchi ipocondriaci, un incidente d’auto a malapena evitato, insulti britannici, incubi ad occhi aperti, ricordi sparsi della conversazione con il cinese e gli sguardi inquisitori dei passanti che non potevano sapere nulla della mia farsa, ma sembravano guardarmi con sospetto. Continuavo ad infilare la mano in tasca e a toccare il cellulare, per controllare che fosse ancora lì e che magari non mi fossi immaginato tutto. Sapevo che avrebbe potuto suonare in qualsiasi momento, rovinando ogni cosa. La mia incapacità di risolvere il problema mi avrebbe tradito e la verità sarebbe venuta a galla. Ma chi me l’ha fatto fare di accettare un lavoro che non posso svolgere perché non ne ho le competenze? Chi altro, se non io, può mettersi in un guaio così? Che penserebbero i miei compari in Venezuela, se sapessero in che casino mi sono messo qui in Inghilterra? Meglio che non lo sappiano.
Il cinese aveva ragione ma io non avevo ancora vissuto in questo paese così a lungo da comprendere a pieno la profondità delle sue affermazioni, però avevo sofferto abbastanza a lungo per capire che aveva ragione e quindi dovevo continuare con la mia commedia se volevo progredire ed andare avanti, altrimenti avrei continuato a fare lavoretti poco qualificati, pagati il minimo e così via, quindi non avevo altra scelta. Ciò che avevo imparato in Venezuela non mi serviva lì, quindi dovetti reinventarmi e fui costretto a mentire. La verità è che chiunque abbia un minimo di cervello, a pensarci bene, sarebbe disposto a dire una piccola bugia, se quest’ultima non fosse completamente aliena alla realtà, per esempio dichiarare di conoscere un programma specifico per computer, quando in realtà ne conosce un altro simile. Una piccola bugia, insomma. Ma la menzogna che avrei detto io era la più grande tra tutte quelle che si possono dire in Inghilterra: avrei dichiarato di essere in grado di capire e parlare l’inglese. Peggio di così non si può, ma io feci in modo che fosse ancora peggio di così, com’era ovvio.
Vorrei chiarire che vi era un certo tipo di inglese che riuscivo a capire, ovvero quello lento, colto e pieno di pause parlato dagli stranieri che lo hanno imparato nelle scuole o all’università, niente a che vedere con l’inglese vivace, veloce e pieno di inflessioni parlato dagli autoctoni. Capivo abbastanza bene anche l’inglese scritto, quello dei testi letterari o scientifici, ma come potevo comprendere l’inglese dialettale dello Yorkshire, Lancaster o Liverpool. Insomma, capivo solo l’inglese scolastico, ma con l’inglese “autentico” facevo una gran fatica. Maledissi la mia educazione nel collegio in Venezuela, dove facevamo solo due ore di inglese alla settimana e ci sembrava quasi una distrazione dalle molte ore dedicate alle materie “importanti” come chimica, fisica e via di seguito. L’unica cosa che imparai a scuola fu un po’ di grammatica, un po’ di ortografia e a superare gli esami. Un altro paio di mesi nel “Colegio Americano” mi diedero un po’ più di sicurezza e mi prefissai l’obiettivo di migliorare da autodidatta, vedendo film in inglese con i sottotitoli; qualcos’altro lo imparai all’università, quando ci assegnavano alcuni libri da leggere in inglese, ed io, dizionario alla mano, li leggevo ma senza prestare attenzione a come si pronunciassero quelle parole. Insomma, per farla breve, potevo leggere, scrivere qualcosa e dire qualche frase; potevo addirittura capire l’assessore cinese, che poi risultò essere vietnamita, quando parlava, o un tedesco o un russo parlando in inglese, ma non un madrelingua: quasi ogni frase pronunciata da un parlante nativo conteneva una o due parole che non riuscivo a decifrare, di solito proprio quelle che servivano di più a comprendere l’intero messaggio. Questo accadeva quando ero fortunato; spesso mi capitava di non capire assolutamente nulla, neanche dove finisse una parola e ne cominciasse un’altra. E fu così che quando riempii la domanda per un lavoro con il Refugee Council, ebbi la faccia tosta di dichiarare, nella sezione degli idiomi parlati, la mia padronanza tanto dello spagnolo quanto dell’inglese. Come avrei potuto fare altrimenti? Non potevo fare domanda per un lavoro in Inghilterra e dichiarare di non conoscere la lingua. Mi veniva da ridere al pensiero dell’impiegato delle risorse umane che si trovasse davanti ad una domanda di quel tipo. Cosa mai avrebbe potuto pensare? Ma guarda questo, vuole fare l’ingegnere e non sa né fare i calcoli ne’ le equazioni. Patetico.
Studiai con attenzione la descrizione delle mansioni e il profilo del candidato ideale, presi nota di tutte le possibili domande che avrebbero potuto farmi e mi misi a studiare tutte le parole chiave presenti, non nell’illusione di capire ogni domanda che mi sarebbe stata posta, cosa che ritenevo impossibile, ma per poter quantomeno formulare qualche idea che avesse un minimo di attinenza con il tema. Feci tutto ciò non perché mi sentissi particolarmente coraggioso, ma perché l’assessore cinese mi aveva detto di farlo, e neanche perché pensassi di ottenere quel lavoro, ma piuttosto per diventare più sicuro di me, imparando quelle parole nuove che mi sarebbero potute servire anche per altri colloqui. Il piano era chiaro: un po’ alla volta avrei migliorato il mio inglese e avrei potuto perfino ottenere un lavoro da portiere presso il British Refugee Council e da lì, piano piano, avrei potuto aspirare a un posto migliore, magari come consigliere per i rifugiati. Così inviai la mia candidatura per la posizione di portiere, cosa che mi sembrava assolutamente ragionevole.
Non avevo la minima idea di come avrei svolto quel lavoro senza avere la piena padronanza della lingua: potevo già immaginare situazioni surreali, in cui qualcuno mi chiedeva dove si trovasse la cassetta delle lettere ed io rispondevo in automatico: mi spiace, il sabato siamo chiusi. Che disastro. Per ora l’unica cosa importante era superare il colloquio; avrei pensato a tutto il resto a tempo debito. Così andai al colloquio e feci quello che potei, ma non lo superai e cominciai ad abituarmi a quelle risposte tutte uguali: siamo spiacenti di informarLa che per questa volta la sua candidatura non è stata selezionata… E come poteva essere diversamente? Però la perseveranza è una delle chiavi del trionfo, quindi seguendo i consigli del cinese, chiesi che mi dessero un feedback e cosi venni a scoprire che non c’entrava nulla il fatto che avessi capito poco o niente di ciò che mi era stato chiesto, ma il vero problema era la mia mancanza di esperienza come portiere in Inghilterra. Bisognava che avessi lavorato come portiere per almeno due anni, niente meno, tutto il resto non contava.
Qualche mese dopo apparve un altro annuncio del Refugee Council. Cercavano Project Workers, proprio così, con la maiuscola lo scrivono, e quando lessi la descrizione delle mansioni mi resi conto immediatamente che non avrei mai potuto svolgere quell’impiego. Si trattava di fornire appoggio ed assistenza ai richiedenti asilo in Inghilterra, e tutto era spiegato molto chiaramente, fin nei minimi dettagli, ed io leggendola cominciai ad immaginare cosa avrei potuto fare in tale posizione se solo avessi saputo bene la lingua. Un giorno succederà, pensai. Ad ogni modo decisi di inviare la mia candidatura, col solito scopo di andare al colloquio, fare pratica con le domande e le risposte e così magari, un giorno, essere scelto per lavorare come portiere, se mai un’altra occasione fosse sorta. Con mia grande sorpresa, mi chiamarono per un colloquio. La mansione principale sarebbe stata quella di fare consulenza e dare appoggio ai rifugiati … che responsabilità! Ci pensai a lungo e alla fine decisi di provare, così andai a quell’incontro con il terrore di fare una pessima figura, ma ci andai preparato, anzi preparatissimo. Andai perfino a trovare l’assessore cinese, il quale si congratulò con me e mi insegnò una parola nuova, “bold”, che significa audace. Il mondo è di chi osa, mi disse il cinese. Ad ogni modo avrei dovuto aspettare ancora due anni prima di ottenere un lavoro di quel tipo, ma da qualche parte si dovrà pur cominciare. Riempii tutte le sezioni del foglio per la mia candidatura, e di nuovo mentii, non solamente riguardo la mia conoscenza dell’inglese, ma dichiarai anche di avere avuto esperienze lavorative con richiedenti asilo in Inghilterra. Questa dichiarazione non era del tutto falsa, dato che in effetti avevo fatto del volontariato per un’organizzazione che aiutava i rifugiati, un po’ anche per fare pratica con la lingua, ma di fatto l’unica cosa che facevo lì era lavare i piatti, e lo feci solo per due mesi, un giorno a settimana, mezz’ora al giorno … insomma, ciò che stavo dichiarando era un’esagerazione della realtà. Ad ogni modo arrivai alla conclusione che mentire non era un problema perché tanto non mi avrebbero scelto.
Il giorno del colloquio mi sedetti davanti a tre selezionatori. Uno di loro era arabo, che fortuna! Lui lo potevo capire, ma gli altri due no. Delle nove domande che mi fecero ne capii solo tre, ma mi aiutai con le parole chiave che avevo imparato e la conoscenza perfetta delle mansioni che avrei dovuto svolgere e che avevo studiato a fondo su Internet che, a quei tempi, era ancora una novità. Non appena arrivai al colloquio cominciai immediatamente a mettere in pratica tutte le tecniche istrioniche che avevo imparato al corso di teatro quando ancora facevo il collegio in Venezuela: per cominciare, dissi ai miei selezionatori che avevo un fastidio alle orecchie in quanto ero in convalescenza da una rara malattia tropicale, ma aggiunsi che non c’era motivo di preoccuparsi, che non era nulla di grave, ma che se avessero avuto la cortesia di parlare piano avrei potuto capire senz’altro le loro domande, e fu così che non solo riuscii a farli parlare lentamente, quasi come se potessi leggere ciò che dicevano nei sottotitoli, ma anche a fargli ripetere più di una volta le domande che facevo fatica a capire. Quando il colloquio terminò, me ne tornai a casa prendendo lo stesso treno che mesi dopo avrei preso in quel pomeriggio di luglio, quando cominciai a riflettere su tutto l’accaduto e a ricostruire tutta questa vicenda. Pensai che quello era stato il primo colloquio che avevo fatto per un lavoro serio, ma avevo mentito spudoratamente e mi venne da ridere. Continuavo a pensare a quanto ero stato folle ad andare a quel colloquio senza neanche parlare bene l’inglese, e non riuscivo più a smettere di ridere. Poche ore dopo, ricevo una telefonata.
Dall’altro lato della linea una voce, che non riconoscevo, diceva di chiamare per conto del Refugee Council. Mi resi conto che era uno dei selezionatori, il signore arabo per essere precisi. Facevo fatica a capire quello che mi diceva, però mi sembrò che disse che mi volevano assumere. Dio mio, non potevo crederci! Eppure non vi era alcun dubbio: mi stavano offrendo quel lavoro. Dissi che sarei andato a parlare con loro in persona, perché a causa del mio problema all’udito non riuscivo a capire chiaramente quello che mi stesse dicendo per telefono. Così, andai di persona e non ebbi più alcun dubbio: effettivamente, volevano darmi quel lavoro. Se ne avessi avuto la certezza quando eravamo ancora al telefono avrei potuto inventarmi una scusa per non accettare, però dato che non capivo nulla di ciò che mi veniva detto, avevo deciso di andare di persona, ed eccomi in quel guaio. Immediatamente gli dissi che non potevo accettare quel ruolo perché la mia comprensione dell’inglese era limitata, ma la mia sincerità non servì a nulla perché l’arabo mi disse che non era un problema e che presto sarei guarito; allora provai di nuovo ad essere onesto con lui e gli spiegai che il mio problema all’udito non era poi così grave, il vero ostacolo era che io non capivo l’inglese, al che l’uomo ribadì che se con la mia scarsa conoscenza dell’inglese ero riuscito a rispondere correttamente alle loro domande durante il colloquio, significava certamente che avevo le competenze per quel ruolo. Sembrava non ci fossero vie d’uscita: o parlavo in maniera ancora più esplicita, o accettavo quel lavoro. L’ultima opzione poteva essere solo quella di mettermi a urlare: No! No! No! Per poi uscire da lì correndo, con le mani nei capelli come se fossi impazzito. Ma non ne ebbi il coraggio e accettai, e fu così che cominciai a lavorare come consulente in un paese in cui non capivo quello che la gente diceva. Tutta la gavetta che avrei dovuto fare, cominciando dal ruolo di portiere, la saltai.
Dal giorno in cui mi nominarono Project Manager al giorno in cui avrei dovuto cominciare a lavorare passarono due settimane. Per poter svolgere il mio lavoro dovevo innanzitutto essere in grado di identificare quali fossero i problemi che i richiedenti asilo dovevano risolvere e poi, seguendo le procedure della legislazione britannica in merito ai rifugiati, proporre una soluzione e presentare il caso dinanzi alle organizzazioni governative, private oppure sostenute da donatori, di competenza. In quelle due settimane imparai quasi a memoria il manuale con tutte le regolamentazioni, leggi e procedure e i nomi di tutte le organizzazioni con le quali avrei dovuto collaborare. Il compito non sarebbe stato impossibile se avessi avuto una buona comprensione della lingua, ma io non capivo quasi niente e sarei stato un buono a nulla sia come portiere sia come project manager. Come ho già detto, capivo solo quelle persone che parlavano un inglese simile o peggiore del mio e così, facendo in modo di prolungare le mie difficoltà auditive il più a lungo possibile, divenni un impostore professionista.
Il signore arabo, che risultò essere il mio capo, mi diede un piano di formazione che praticamente consisteva nell’osservare ciò che un collega, già navigato nel settore, faceva. Partecipavo quindi a quegli incontri e ascoltavo i rifugiati che parlavano nella loro lingua, che all’epoca era di solito il kurdo o lingala, una lingua del Congo, mentre con l’utilizzo di un traduttore veniva riportato tutto in inglese, ed io qualcosa capivo. Dopodiché, di tutto ciò che seguiva, non capivo più un bel niente: il project worker diceva qualcosa in inglese, il messaggio veniva tradotto in kurdo e finalmente partivano varie telefonate nelle quali il project worker parlava della questione con altri impiegati di qualche altro ufficio, chissà quale. Se tutto andava bene, non mi veniva spiegato nulla; altrimenti, mi veniva spiegato qualcosa ed io mi limitavo a muovere ritmicamente la testa in segno di assenso, come se capissi ciò che mi veniva detto, nel tentativo di nascondere la mia farsa. Un disastro.
Passarono i giorni ed io, che di notte analizzavo ciò che poteva succedere di giorno a lavoro, cominciai pian piano a capirci qualcosa. Ma arrivò il giorno in cui, per la prima volta, avrei dovuto fare qualcosa da solo per telefono, da casa; e quel pomeriggio di luglio era, per l’appunto, il giorno in cui camminavo verso la stazione col cellulare in tasca. Ciò che dovevo fare era piuttosto semplice: se qualche poliziotto a Leeds o in qualche altra zona della nostra contea avesse incontrato una persona senza documenti e nella posizione di poter chiedere asilo, la polizia avrebbe dovuto chiamare al nostro numero. L’unica cosa che dovevo fare era quella di rispondere al telefono, chiamare un taxi scegliendo da una lista di nominativi e fornire all’autista l’indirizzo di dove si trovasse la persona in questione, in modo da poterla accompagnare agli uffici di Liverpool per fare la richiesta di asilo. La settimana successiva, di rientro al lavoro dopo il fine settimana, avrei dovuto verbalizzare il tutto, così da poter inviare il pagamento della corsa al tassista. Insomma, era una sciocchezza, almeno per qualcuno che capisse l’inglese, ovvio.
Quel giorno quindi, mentre camminavo verso la stazione tra attacchi più o meno reali d’infarto, incidenti stradali e quant’altro, cercavo di convincermi che chiamare un taxi non fosse poi un’impresa cosi impossibile per una persona che parlasse un po’ di inglese come me, anche se non lo capivo affatto. Insomma, l’unica cosa che dovevo fare era quella di fornire un indirizzo, tutto qua, e aspettare che mi venisse detto un si o un no, nella speranza che l’interlocutore dall’altro capo della linea non avesse voglia di scherzare con me, non si sa mai con questi inglesi e il loro macabro umorismo. Il problema vero sarebbe stato capire l’indirizzo che il poliziotto avrebbe dato a me, in quegli anni in cui ancora non esistevano né GPS né social media. Nasser, il mio capo, si prendeva gioco di me: ma certo che ce la farai, ci sono riuscito anch’ io prima di te! Mi ripeteva da quando ormai si era reso conto che in effetti non capivo molte cose, e neanche lui capiva tutto ma sicuramente più di me. Si formò tra noi una specie di solidarietà tra “cripto sordi”, ma io ero convinto che avrei avuto meno successo di lui ai suoi tempi, e che a me sarebbe sicuramente toccato uno di quei tassisti con l’accento fortissimo e uno di quei poliziotti che invece di parlare più lentamente quando qualcuno non capisce, si mettono ad urlare e a ripetere tutto sempre alla stessa velocità. Continuavo a pensare a come sarei riuscito a gestire quella situazione e ad affrontare tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate. Nasser mi aveva rassicurato dicendomi che, al massimo, avrei ricevuto una o due chiamate durante tutto il fine settimana, ma che molto probabilmente non avrebbe chiamato nessuno. Misi nuovamente la mano in tasca e toccai di nuovo il telefono. Era lì, e sapevo che a causa sua la mia farsa sarebbe stata scoperta.
Passò il venerdì e nessuno chiamò; passò il sabato e il telefono non squillò. Cominciavo a sentirmi molto fortunato, considerando che mi pagavano per ogni ora che passavo con questo telefono alla mano, ma domenica mattina, com’era da aspettarsi, il telefono suonò. Era l’alba ed io, preso dal panico, avvicinai l’apparecchio all’orecchio e dissi, con voce tremante: good afternoon. Dall’altro lato della linea qualcuno cominciò a dire frasi in inglese a raffica, che io sapevo essere in inglese solo perché mi trovavo in Inghilterra, ma che se fossero state pronunciate in un altro luogo della Terra, avrebbero potuto essere in qualunque altro idioma. Capii solo due parole: good morning, pronunciate con un tono ben marcato. Chiaramente avevo già commesso un errore e il mio interlocutore me lo stava facendo notare, tanto per non dimenticare che a volte deve andare tutto storto. Calmati, mi dissi, e chiedi l’indirizzo. Immediatamente, l’uomo alzò la voce ma senza esagerare, come prevede il decoro inglese, ed emise dei suoni che io non riuscii a decifrare, ma mi ero preparato a quell’eventualità. Avevo imparato come si diceva che la linea era disturbata e di parlare più lentamente. Era una frase che avevo provato a dire varie volte, ma questa volta non riuscii neanche a terminarla perché il poliziotto disse qualcosa che io non capii e immediatamente dopo riattaccò. Respirai profondamente. Richiamerà, pensai. Quando il telefono squillò, risposi e l’uomo disse di nuovo qualcosa che non capii. Probabilmente, voleva sapere se potevo sentirlo meglio, allora io dissi, ancora una volta, che la linea era disturbata e che doveva parlare più lentamente. Con un tono infastidito, ripetè qualcosa e riattaccò. Chiamò una terza volta, e poi una quarta, e così via. Ad un certo punto, quando la mia autostima era già stata completamente distrutta ed ero in preda al panico, successe qualcosa. Pensai che forse la persona dall’altro lato del telefono poteva essere qualcun altro, magari un assicuratore o un addetto delle pompe funebri, quindi all’ennesima chiamata risposi e chiesi chi era. Per la prima volta, udii una vera e propria raffica di maledizioni, seguita dalla conferma che si trattava proprio di un poliziotto che chiamava da Hull, una città situata nell’estrema parte orientale dell’Inghilterra. Non avevo mai sentito parlare di questa città, quindi pensai che si trattasse della polizia della lana, wool in inglese, ma non feci nessuna domanda a riguardo perché sicuramente mi avrebbe risposto, con tono sarcastico, che proprio di quello si occupava, di star dietro alle pecore. Ma il peggio doveva ancora arrivare: quando chiesi per conto di chi avrei dovuto chiamare un taxi, mi rispose che era per diciotto persone. Esattamente così, diciotto persone, cioè avrei dovuto coordinare più di un taxi. Mi diede l’indirizzo e quando mi disse, lettera per lettera, il nome della città, scoprii che esisteva un luogo chiamato Hull. Dopo aver riattaccato, mi precipitai a cercarlo sulla cartina geografica, che a quei tempi ancora bisognava inventare Google Maps, e fu una vera impresa trovarlo ma ci riuscii e mi accorsi che non era affatto nelle vicinanze, ma situato estremamente ad est dell’Inghilterra, mentre Liverpool, dove bisognava portare quei rifugiati, era esattamente dalla parte opposta. Non che l’Inghilterra sia così grande, però una carovana di taxi sarebbe stata troppo costosa, e se l’avessi chiamata avrebbe sicuramente finito per azzerare tutti i fondi annuali del Refugee Council, o almeno così pensavo. Quindi dovevo trovare un’altra soluzione e pensai che le mie radici latine mi avrebbero aiutato, altro che quella rigidità britannica tanto osannata, di cui parlava sempre anche l’assessore cinese. Era ora di dimostrare quanto fossi creativo e capace di risolvere qualunque problema, e fu allora che mi venne in mente di affittare un pullman, anche se non avevo né i soldi né alcuna autorizzazione per poterlo fare. Chiunque abbia vissuto in Inghilterra sa che le cose in questo paese non funzionano così, e se mi trovassi nella stessa situazione oggi, neanche mi verrebbe in mente un’idea così stupida, però l’ignoranza e l’audacia vanno a braccetto e quindi ci provai. L’unico che possedevo erano un telefono e la mia capacità di persuasione, ed incredibilmente, ci riuscii. Il racconto completo di come feci sarebbe lungo quanto un romanzo di Tolstoy, anche se mi piacerebbe scriverlo un giorno, però sto già scrivendo un’altra storia, quella di una rifugiata venezuelana, e queste vicende sono solo un passatempo. Dunque, quando infine riuscii ad affittare quel pullman mi sentii orgoglioso di me stesso, anche se si era fatto quasi notte: tutte le amarezze del passato sembrarono addolcirsi e improvvisamente la mia vita aveva preso lo stesso sapore di un fondo di caffè, dove si deposita tutto lo zucchero, e mi ricordai con gratitudine, anche del mio amico, l’assessore cinese.
Dunque, il pullman era stato affittato e il giorno successivo avrei pensato a tutte le scartoffie burocratiche necessarie. Era costato meno dell’affitto di due taxi, quindi non solo avevo fatto risparmiare parecchi soldi al Council, ma avevo anche facilitato il lavoro della polizia di Hull, che non era stata costretta ad inviare una carovana di pattuglie per fare da scorta ai taxi. La mattina dopo uscii di casa presto, tanta era l’emozione di poter raccontare quest’ impresa vittoriosa al mio capo. In cammino verso l’ufficio feci attenzione mentre attraversavo la strada, perché adesso mi sembrava che vivere valesse davvero la pena, e pensai che la farsa che avevo inscenato per simulare la mia conoscenza dell’inglese era stata compensata dalle mia capacità di negoziazione, e così gli incubi che mi avevano perseguitato durante il fine settimana lasciarono posto a mille fantasie su come avrei raccontato quell’impresa. Il cinese aveva ragione, bastava fingere di avere delle competenze e far valere solo la propria audacia e professionalità. Quel fine settimana era stato come un corso intensivo di inglese, però alla fine avevo fatto risparmiare al Council parecchi soldi. Sarebbe arrivato anche il giorno in cui avrei finalmente cominciato a capire quello che mi veniva detto. Addirittura, pensai che all’assessore cinese era costato anche più tempo e fatica ottenere ciò che io avevo raggiunto così velocemente, e pensai al privilegio che avevo di provenire da una famiglia italiana colta, di aver studiato presso l’ ”Universidad Catolica” e di aver sempre avuto degli standard di vita alti. Per la prima volta da quando ero andato via dal mio paese, smisi di sentirmi come il povero immigrato che non capisce niente, ma piuttosto cominciai ad identificarmi come il depositario di una cultura millenaria, che finalmente prendeva possesso del suo posto in quella nuova società. Quei passi che avevo percorso con angoscia qualche giorno prima, li percorrevo adesso con orgoglio e soddisfazione.
Quando Nasser arrivò in ufficio, puntuale come sempre, gli raccontai la vicenda e si mise a ridere ma allo stesso tempo capii, dall’espressione sul suo volto, che non ne era affatto contento. Mi sentii un po’ confuso e pensai che forse, dato il suo background arabo, gli era difficile comprendere la mia maniera latina di risolvere i problemi, pensiero di cui, adesso che mi occupo di tagliare rametti d’uva e separarne gli acini, mi vergogno un po’. Mi disse che avrei dovuto parlarne col suo capo, Margot Cooper, che di solito arrivava sempre tardi in ufficio, ancora con la tuta da ginnastica addosso. Alle dieci, Margot arrivò e poco dopo uscì furiosa dal suo ufficio brandendo in una mano, come se fosse una bandiera, il foglio con la lista dei numeri di telefono dei taxi che io avrei dovuto chiamare. Urlando, disse: ma non ti hanno spiegato che devi usare questi taxi per andare a prendere i richiedenti asilo? Come al solito, capii ciò che diceva dai suoi gesti e da quel foglio che mi stava sventolando in faccia, ed anche da qualche parola chiave che riconobbi quà e là.
E fu da lì che cominciai a capire che il vero commediante, in questa storia, non ero io ma l’organizzazione per la quale lavoravo, a cui non importava nulla di fare le cose per bene, ma solo di farle secondo il protocollo, e a cui non interessava affatto ciò che una persona capisse ma solo ciò che dicesse, e che non aveva a cuore il successo delle proprie azioni, ma solo le procedure. L’unica maniera che avevo per potermi integrare con i miei collegi in quell’ufficio era quella di lasciarmi corrompere da quel sistema, cosa che in un principio feci solo in parte, e poi smisi di fare del tutto, ma questa è un’altra storia.
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