lunedì 18 settembre 2023

Incontro con la Dea


Presto la versione elettronica della 'raccolta di racconti del bloody migrant' sarà disponibile solo su Kindle



Quando le porte dell’ascensore si aprirono e me la ritrovai al mio fianco, capii che la mia vita sarebbe stata miserabile da quel momento in poi. Era proprio lei, la stessa ragazza che avevo visto per la prima volta una settimana prima, quando ancora non avevo idea del casino in cui stavo per mettermi. La vidi mentre camminava con delle amiche nel cortile di fronte al mio edificio, in pieno centro, elargendo sorrisi e risate contagiose, e a me parve subito bellissima, sensuale e vivace. La vidi fermarsi a comprare qualcosa in un negozio all’angolo e continuai ad osservarla dall’altro lato del cortile. Non sapevo ancora cosa mi sarebbe successo di lì a poco.

Non so se il mio problema più grande sia la mia mandibola asimmetrica o il naso un po’ storto, o qualcos’altro che si vede ma non è perfetto. Forse, al contrario, c’è qualcosa nel mio aspetto che non si vede, ma che dovrebbe esserci, non saprei. Ad ogni modo, mi sembra che la maggior parte delle donne abbia maggiore interesse per tipi più muscolosi di me, col naso dritto, sicuramente più benestanti e magari meno intelligenti e sensibili di me. Per questo motivo l’ho guardata da lontano, cercando di non farmi notare. Ero ammaliato dalla sua pelle dorata, dai suoi fianchi larghi di mulatta e dalle gambe muscolose, dalla vita impeccabilmente stretta e da quei seni naturali di dimensioni perfette. Il suo volto era delicato ma elegante, con dei tratti orientali che contrastavano con quel sorriso sonoro e quello sguardo birichino.

L’ho guardata da lontano perché non sono neanche un dongiovanni, come lo è invece il mio amico Gonzalo, che è capace di fare complimenti a qualunque bella donna che incontra, ed ognuna di esse, inevitabilmente, si sente compiaciuta e ricambia le attenzioni. Se il complimento lo faccio io, invece, la bella di turno mi lancia un’occhiata di disprezzo che significa “stai al posto tuo”, nel caso in cui si degna di guardarmi. Se lo rivolgo ad un’amica, il rifiuto diventa ancora più doloroso, perché vuol dire “grazie, amico mio, ma puoi scordartelo”. Quella parola ripetuta nella frase stessa del rifiuto, “amico”, significa proprio questo: “ti voglio bene, un mondo di bene, ma con te non ci penso proprio”. Lizmary, Isabel, Ana Isabel, Ana Maria erano tutte amiche e nessuna di loro si è lasciata avvicinare. Tutte hanno pronunciato, ad un certo punto, quella parola nefasta. Per questo motivo ho capito che non posso cominciare una conversazione con una donna facendole un complimento. Devo per forza cominciare con una domanda, però quale? Non so mai da dove cominciare. Sono sempre stato un tipo convenzionale, che rispetta le norme e si adatta alle situazioni per non dare fastidio a nessuno. Faccio di tutto per passare inosservato. Se sono ad una festa, ho il terrore di dire qualcosa di stupido e faccio finta di capire tutto quello che mi viene detto, anche se in realtà non lo capisco ma so che probabilmente non è nulla di interessante, proprio come i miei discorsi. Non arrivo mai tardi ad un appuntamento per non dovermi scusare, perché le mie scuse possono assumere un tono terribilmente imbarazzante. Non sopporto che mi prendano in giro e perciò evito qualunque discussione. Mi unisco al gregge e rimango in silenzio. Sono codardo a tal punto che provo timore perfino quando vedo un personaggio di un film che fa qualcosa di illecito e rischia di essere scoperto. Per me possono funzionare solo gli amori sicuri, se esistessero. Per questo motivo quando la vidi per la prima volta mi sentii perso, perché mi resi

conto che le emozioni che stavo provando mi avrebbero condotto alla perdizione, perché non avrei accettato che andasse tutto come era sempre andato con i miei amori precedenti.

Pensavo proprio a questo quando la vidi apparire dinanzi a me nell’ascensore, e mi sembrò quasi di non poter respirare, proprio come mi accade quando sono al cospetto di una donna che mi attrae. Non so se sono uno stupido, un pervertito o se ci sia qualcos’altro che non quadra in me, ma sono fatto così. Il cuore comincia a battere più forte, uno strano calore mi invade il petto, mi si annebbia la mente ed inevitabilmente sento il corpo prepararsi per un attacco che purtroppo, non avverrà. In quei momenti non mi rendo neanche conto di ciò che dico, se dico qualcosa e non so nemmeno a cosa penso, se penso a qualcosa. Finisco sempre per perdere tempo ed energie, ma stavolta mi sforzai per agire diversamente. E così, quando la vidi apparire nell’ascensore, riuscii a dire qualcosa.

-A che piano vai? – fu la mia eroica domanda.

-Vado al quinto piano. Mi sono appena trasferita.

Lo so che Gonzalo avrebbe sicuramente detto qualcosa di meglio, di più virile, ma a me sembrò già di aver compiuto un’impresa degna di nota. Posò lo sguardo su di me e mi sembrò di vedere nei suoi occhi un misto di tenerezza, amore e desiderio. L’ ascensore arrivò al quarto piano e la porta si aprì.

-Arrivederci – le dissi, mentre uscivo.

-Arrivederci – mi rispose.

Avevo osato parlare alla donna più bella del mondo e ci ero riuscito. Alla più divina, quella dallo sguardo birichino. Le sue parole riecheggiavano nella mia mente … mi sono appena trasferita al quinto piano … Quella scena continuava a ripetersi senza sosta nella mia testa, mentre cercavo le chiavi di casa, mentre aprivo la porta, mentre entravo, e andò avanti così per tutta la notte.

Al quinto piano … mi sono appena trasferita … Quello sguardo intenso che mi aveva rivolto mi aveva sconvolto. Non era il modo in cui si guarda un amico, ne ero certo. C’era del fuoco, in quegli occhi. E se fosse stato tutto frutto della mia immaginazione? Non poteva essere. Nessuno ti guarda a quel modo senza motivo. E poi, perché dirmi che si era appena trasferita, indicando perfino a quale piano? Vuole forse che vada a visitarla? Che vada a chiederle un po’ di zucchero? Che magari passi di lì casualmente e le vada a fare un saluto? Ciao, vivo al piano di sotto, appartamento 42, ai suoi ordini.

“Eh già – pensavo – adesso vado su, le suono al campanello e le dico proprio così: ciao, vivo al piano di sotto, ai suoi ordini”.

E a quel punto di solito cominciano i guai perché invece di ragionare sul da farsi, comincio sempre ad immaginarmi quello che vorrei che accadesse, proprio così, mi trastullo in fantasie dove la mia futura amante mi invita ad entrare, mi chiede se voglio bere qualcosa e poi comincia a spogliarsi ammiccando. Porca miseria, sempre la stessa storia: comincio a fantasticare su cose che non

succedono mai invece di sforzarmi per architettare un piano che possa funzionare. Cercai di farmi coraggio:

“Il vero problema non è questa mandibola asimmetrica o il naso un po’ storto, ma questo mio modo di fare così gentile, rispettoso, delicato. Le donne vogliono un uomo determinato, virile mentre io non lo sono affatto ed è per questo motivo che mi respingono, soprattutto quelle belle che possono scegliere con chi accoppiarsi e di certo non vogliono uno come me, timido, balbuziente e quant’altro. Non avrebbe senso ai fini biologici. Adesso vado sù e le dico che sono ai suoi ordini, senza tanti giri di parole, come un vero macho.”

Mi infilai un paio di pantaloni stirati, una camicia che mi piaceva, misi un po’ di acqua di colonia ma senza esagerare e afferrai le chiavi di casa e il portafoglio. Aprii la porta di casa con energia e prima di uscire mi guardai allo specchio:

“A partire da questo momento, sono un’altra persona: dura, determinata, forte, sicura di sé, virile. Se non cambio atteggiamento rimarrò celibe per sempre. Se non ci dò dentro adesso, non ci darò dentro mai più”.

Chiusi la porta alle mie spalle e guardai le scale in fondo al corridoio che portavano al piano superiore. Mi sentivo pieno di forza e fiducia e con passo sicuro cominciai a camminare verso le scale. Salito il primo gradino, sentii un dolore al petto e una stretta allo stomaco.

“Porca miseria, ma come mi viene in mente di andare a casa della mia dea come se niente fosse, tanto per fare qualcosa. Ci andrei ma non in questo stato, con le palpitazioni e la camicia bagnata di sudore. Meglio tornare a casa e scaricare tutta quest’adrenalina come faccio sempre, sotto la doccia. Almeno mi faccio passare quest’ansia che mi è venuta”.

Tornai a casa ed entrai subito in bagno a fare una doccia e a scaricare quell’eccesso di energia. Cercai di guardare un po’ di televisione ma non riuscivo a rilassarmi.

“Sei uno stupido, un coglione, un segaiolo. Hai 25 anni e non sei mai stato con una donna. Incredibile. E andrai avanti così. Sarebbe meglio se mi buttassi dalla finestra o sotto a un treno e mi ammazzassi. Ma non scherziamo. Sarebbe meglio se andassi a casa della dea, adesso”.

Di nuovo feci quello che avevo fatto poco prima: mi rimisi addosso la camicia e i pantaloni, un po’ di acqua di colonia e afferrai le chiavi di casa e il portafoglio. Camminai verso le scale e salii al quinto piano.

“Adesso devo suonare il campanello. Provo con questo, se non è quello giusto allora provo con quest’altro e così via, finchè non la trovo”

Ma in quel momento cominciai di nuovo a sudare e ad avere la tachicardia, come c’era da aspettarsi. Tornai indietro verso le scale e decisi di aspettare lì. Chissà che la dea non aprisse la porta e mi facilitasse le cose. E all’improvviso qualcosa accadde. Cominciai a sentire un rumore di chiavi che entravano nella serratura. Scesi qualche scalino e mi accucciai in modo da poter

osservare il corridoio senza essere visto. Qualora fosse apparsa la dea avrei fatto finta di essere lì per caso.

“Sarebbe perfetto. La dea esce di casa ed io le appaio davanti all’improvviso sulle scale, facendo finta che sto facendo qualcos’altro ma che sono piacevolmente sorpreso di vederla e le dico: oh ma guarda che casualità, ci si incontra di nuovo, comunque vivo al piano di sotto e sono ai tuoi ordini. Se hai bisogno di qualcosa, basta chiedere. Porca miseria, ho di nuovo le palpitazioni. Oddio, sto per avere un infarto. Adesso muoio e senza neanche aver scopato una sola volta in vita mia”.

La porta si aprì e si richiuse subito dopo. Le palpitazioni aumentarono di nuovo ma ero troppo giovane per avere un infarto e riuscii a sporgermi leggermente e a guardare sul pianerottolo. Non era lei. Decisi di aspettare ancora un po’ e mi sedetti su un gradino. Aspettai quasi un’ora e all’improvviso sentii il rumore inconfondibile dell’ascensore che si fermava al quinto piano.

“Magari stavolta è lei. Forse era uscita a comprare qualcosa e adesso sta tornando a casa. Posso fare finta che stavo salendo le scale, le vado incontro e la saluto di nuovo, e magari lei mi invita ad entrare a casa sua, dopodichè è fatta”.

Sentii il cuore battere più veloce e una vampata di calore accendersi nel petto. L’ascensore si aprì ma non era lei. Decisi di rimanere ad aspettare ancora per un po’.

“Prima o poi la rivedrò. Tutti i grandi amori non nascono al primo tentativo, hanno una storia alle spalle, forse il nostro inizio deve essere così”.

Continuavo a pensare ma soprattutto a fantasticare, e questo è proprio quello che faccio sempre, perchè i miei sogni ad occhi aperti sostituiscono la realtà e mi aiutano a sentirmi meno frustrato, togliendomi la responsabilità di affrontarla, anche solo temporaneamente.

“Però le cose non possono andare avanti così. Ho già 25 anni e non ho mai toccato neanche una donna ed è vero che posso sempre ricorrere alle mie fantasie , ma voglio una donna in carne ed ossa, che mi voglia bene davvero, con la quale possa fare di tutto, ma soprattutto che mi chieda di farle di tutto”.

Quando mi svegliai il giorno seguente, decisi che i miei appostamenti dovevano essere ben organizzati. Comprai qualcosa da mangiare, del latte a lunga conservazione, qualche bottiglia d’acqua e nascosi tutto sotto la rampa delle scale. In questo modo non avrei avuto bisogno di andare e venire da casa per mangiare o bere, ma soprattutto non avrei perso nessuna occasione per rivedere la mia dea. Decisi di non preoccuparmi degli altri condomini ma di cercare in ogni caso di evitare che mi vedessero accampato sulle scale con tutte quelle buste.

“Non sia mai che proprio mentre uno di loro mi vede e comincia a farmi qualche domanda, appare lei e mi sfugge un’altra occasione per parlarle”.

Passarono le ore ma non accadde nulla. Continuavo ad avere vampate di calore nel petto e la tachicardia ogni qualvolta sentivo un rumore di passi o l’ascensore che veniva attivato, ma della dea ancora nessuna traccia.

“Così sono fatte le dee - mi dicevo - se mi allontanassi un minuto per andare in bagno apparirebbe in quell’istante”.

In quel momento pensai che andare in bagno era effettivamente rischioso e decisi che non potevo permettermi di allontanarmi neanche per un minuto. Guardai le bottiglie di acqua che avevo comprato per bere e decisi che avrei fatto lì i miei bisogni. Erano cinque bottiglie da un litro e questo sarebbe stato sufficiente per l’intera giornata.

Lunedì mattina chiamai in ufficio e dissi che mi era venuta un’infezione e il medico mi aveva detto di stare a riposo per una settimana. Mi dissero che andava bene senza farmi ulteriori domande, allora usai la stessa scusa la settimana successiva. Finalmente domenica accadde qualcosa. Stavo rientrando dal negozio dopo aver comprato un po’ di pane, prosciutto e formaggio che erano ormai le uniche cose che mangiavo per evitare di perdere tempo a cucinare dentro casa. In quel momento la vidi entrare dal portone e camminare verso l’ascensore, dondolando i fianchi con grande disinvoltura. Guardava da un lato all’altro senza fissare lo sguardo su nulla in particolare.

“Due settimane di appostamenti sulle scale e mi appare davanti agli occhi quando meno me lo sarei aspettato – pensai - Meglio così”.

Mi fermai davanti all’ascensore e feci finta di cercare qualcosa nella borsa, per darle il tempo di arrivare accanto a me. Quando giunse, non riuscii a dire nulla. Appena arrivò l’ascensore e le porte si aprirono, la dea entrò ed io la seguii da dietro. Mi feci coraggio e velocemente le dissi:

-Quinto piano, giusto?

-Sì, è giusto! Come lo sai?- mi rispose.

-Ci siamo parlati un paio di settimane fa. Mi hai detto che ti sei appena trasferita …

- Ah sì, è vero … Scusami ma sono stata via in queste ultime due settimane. Che meraviglia!

-Che meraviglia cosa? – le chiesi.

-La mia luna di miele – mi disse.

Mi parve davvero ingiusto. Lei mi guardò e senza parlare disse:

“Non ci posso fare niente: così è scritto”.

A me questi finali misteriosi non piacciono per niente, però feci finta di nulla e la dea mi spiegò:

“Tutto quello che abbiamo fatto finora l’ha scritto Fabrizio nei suoi racconti e non ci possiamo fare niente. Purtroppo gli manca qualche rotella in testa e ha deciso che questa storia deve finire così”.

Uscimmo dall’ascensore e la dea entrò in casa. Rimasi sul pianerottolo davanti la sua porta a pensare a quello che mi aveva detto. Se era vero, allora non potevo fare altro che rimanere lì ad aspettare e vedere se la storia avrebbe avuto un altro finale. Il tale Fabrizio poteva anche avere qualche rotella fuori posto, ma forse si sarebbe impietosito e mi avrebbe accontentato.

Aspettai a lungo ma la porta non si aprì. Pensai di suonare il campanello e dire alla dea di fuggire via insieme da questa storia prima che anche lei potesse sparire per sempre, ma una forza superiore me lo impedì.









Il Pancione






Stamattina ho notato come la mia pancia sia improvvisamente cresciuta, senza alcun motivo apparente. Mi sono alzato e quando ho guardato nello specchio ho notato quel cambiamento e mi è sembrato quasi di vedere un corpo estraneo attaccato al mio: un pancione, appunto. Ho sempre ritenuto di essere un tipo magro e in forma e non capisco proprio come la mia pancia sia potuta crescere così velocemente. Quello che ho visto non mi è piaciuto affatto, e ho pensato che dovrei cominciare a fare un po’ di esercizio e dimenticarmi di tutte le cose golose che mi piacciono, come il burro e la cioccolata. In realtà, non avevo idea di quale fosse il vero problema. 

Mi sono reso conto della gravità della situazione quando ho provato ad infilarmi i vestiti addosso e non ci sono riuscito. Avevo usato gli stessi pantaloni il giorno prima, ma non mi entravano più. Sono stato costretto ad indossare la camicia più grande che ho senza neanche poterla abbottonare, e ho messo una corda infilata intorno ai passanti dei pantaloni per poterli tenere sù. Prima di arrivare in ufficio sono andato a comprarmi dei vestiti nuovi, ma non è servito ad evitare che i miei colleghi facessero le solite battute sciocche che si fanno in questi casi, per sottolineare ulteriormente l’entità del problema. Ho mantenuto la calma e mi sono ripromesso di trovare una soluzione al più presto.

Sono tornato a casa dopo aver lavorato e mi sono messo a ragionare. Mi sono ricordato di un testo di psicologia evolutiva che avevo studiato quando frequentavo l’università, in particolare un passaggio dove si descriveva il processo d’invecchiamento degli esseri umani e la capacità di accettarlo in base al proprio livello personale di successo, ma non mi è venuto in mente nulla che potesse spiegare il motivo per cui un corpo possa cambiare così rapidamente da un momento all’altro. A quel punto ho deciso di non preoccuparmi troppo e ho cercato di convincermi che il problema si può risolvere con un po’ di dieta e palestra.

Il giorno dopo la mia pancia e’ diventata ancora più grossa. Mi sono alzato e mi sono reso conto che e’ diventata così grande da coprire la vista dei miei piedi, così mi sono deciso a chiamare il medico.

-Mi dica – mi ha detto al telefono.

-Ho un problema allo stomaco.

- Le fa male?- mi ha chiesto. Gli ho spiegato che la pancia mi era cresciuta tantissimo e molto velocemente in maniera del tutto inspiegabile.

-Venga la settimana prossima.

In quel momento i bottoni della camicia che avevo comprato il giorno prima e che avevo abbottonato a fatica si sono staccati e sono andati a sbattere contro il muro di fronte a me. Ho visto che sulla pancia si stava aprendo una fessura da cui sono fuoriusciti dei denti, mentre intorno si sono formate delle labbra carnose.

-Dottore, credo che sto impazzendo – ho detto – vedo una bocca sulla pancia.

-Venga domattina alle dieci – mi ha risposto immediatamente.

Ho cercato di mantenere la calma e mi sono seduto sul divano a pensare, ma non è stato facile perché per la prima volta in vita mia ho creduto di impazzire. Ho guardato di nuovo quel pancione dall’alto e quella specie di bocca che si e’ formata e mi è sembrato assurdo di essere in grado di osservare razionalmente quella trasformazione, che non può essere nient’altro che un qualche tipo di allucinazione.

-Questa è solo una situazione temporanea – ho pensato, guardandomi intorno – non è cambiato assolutamente nulla: ogni cosa è al suo posto, posso ragionare, parlare col dottore al telefono e spiegargli cosa sta succedendo. Devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male, forse dovrei chiamare un’ambulanza?

Ho pensato che fosse meglio di no, perché se mi ricoverano, chissà quando potrò uscire di nuovo. Ho deciso che mi sarebbe convenuto andare a comprare dei vestiti nuovi prima di rimanere senza nulla da mettere addosso e sicuramente stare in mezzo alla gente mi avrebbe aiutato a ritrovare la ragione, così mi sono vestito come ho potuto e sono uscito. Mi sono incamminato verso la via principale di Chacao, nel centro di Caracas, in cerca di un negozio di vestiti, quando all’improvviso ho sentito una voce che mi chiama per nome. Mi sono girato per vedere chi mi stesse chiamando ma non ho visto nessuno. Pochi secondi dopo, quella stessa voce rauca mi chiama di nuovo, ma ancora una volta non vedo nessuno. Finalmente mi rendo conto che è la mia pancia a parlare:

-Ce l’ho con te, stupido.

-Porca miseria, ci mancava solo questo – ho pensato - Allora sono davvero diventato pazzo.

Il mio pancione continuava a chiamarmi, ma io ho deciso di non dargli retta perché mi sembrava la cosa più razionale da fare in una situazione come quella.

-E’ meglio se mi ascolti, altrimenti ne pagherai le conseguenze – mi ha detto.

Come al solito, ho cercato di mantenere la calma e di capire cosa avesse potuto scatenare quelle allucinazioni, e ho pensato che questo è proprio quello che succede alle persone che soffrono di schizofrenia. Però ero certo che le persone che mi passavano accanto potevano notare quel pancione e quella bocca che parlava, e le vedevo soffermarsi su di me con lo sguardo e ridere. A questo punto è cominciata la parte peggiore.

Sono entrato nel negozio di vestiti e appena ho visto la negoziante sono corso verso di lei. Il pancione si è accorto della sua presenza e si è messo a parlare:

-Questo signore vuole comprare una camicia nuova per potermi tappare gli occhi. Ha cercato di privarmi del mio diritto di espressione durante tutto il tragitto. Voglio affermare il mio diritto alla libertà e anche quello di poter vedere, quindi per favore, sia gentile e non gli dia nessuna camicia. Non potete negarmi il diritto di vedere il mondo.

Ho cercato, come al solito, di mantenere la calma mentre riflettevo su quelle parole. Il suo discorso era talmente ben formulato che doveva per forza trattarsi di una pancia intelligente, ma

dato che l’unico ad avere un cervello sono io, mi sono convinto che quel discorso non poteva essere reale, ma solamente un prodotto della mia immaginazione. Avevo tra le mani un’ulteriore prova della mia pazzia. Ma proprio mentre mi convincevo dell’irrealtà di quella situazione, la negoziante mi guarda e dice:

-Mi scusi, non vorrei offenderla, ma il suo senso dell’umore è davvero strano.

Con la sua voce roca e sarcastica, la pancia ha risposto:

-Guardi che non è mica lui a parlare.

Quando si è accorta che quella voce proveniva dal basso, la povera donna ha mostrato sul volto un’espressione di grande sorpresa, non inferiore alla mia, perché ho cominciato a rendermi conto che non poteva trattarsi di un’allucinazione se anche lei poteva sentirla. Quella pancia aveva una propria vita e una sua coscienza ed io non avevo nessun controllo su di lei. Ho deciso che era meglio far finta di nulla e rinunciare a voler capire cosa stesse succedendo, e nella maniera più naturale possibile mi sono rivolto alla negoziante:

-Signorina, non faccia caso alla mia pancia. Purtroppo soffro di una malattia rarissima e la mia pancia è impazzita. Per favore, mi faccia vedere delle camicie di colore nero taglia XL che possano coprire interamente questo pancione.

Ma la pancia ha urlato all’improvviso:

-Nere, no!

L’impiegata, come se fosse la cosa più naturale del mondo, le ha risposto:

-Faccio solo quello che dice la bocca in alto.

Nonostante la fretta di comprare quelle camicie e la situazione surreale in cui mi trovavo, sono riuscito a formulare un ragionamento basato sulla logica di Descartes, il quale mi sembrava inconfutabile: come faceva quella donna a sapere dell’esistenza di due bocche sul mio corpo? Avevo sentito chiaramente le sue parole: solo quello che dice la bocca in alto. Ero certo di non averle detto nulla a riguardo di quella bocca sulla mia pancia, o forse non me ne ero reso conto. Forse quell’entità che si era impossessata del mio corpo era reale, perché se io sono l’unico in controllo del mio cervello, come può scaturire da esso una pazzia più intelligente di me? Quella pancia e’ in grado di prendermi in giro e farsi beffe di me, quindi e’ in grado di pensare; se e’ in grado di pensare, significa che esiste. Poi però ho pensato:

-Porca miseria, e se mi sbagliassi? L’impiegata ha solo detto la bocca in alto, non vuol dire nulla. Chissà che quella voce in basso non sia la mia, ed io la sto proiettando verso l’esterno in una maniera che non riesco a capire.

Mi sono precipitato fuori dal negozio e ho cominciato a camminare lungo la Avenida Francisco de Miranda, nel pieno centro della città, mentre continuavo a meditare sulla possibilità dell’esistenza

o meno di una pancia intelligente e indipendente dal resto del corpo. Nello stesso tempo, da quella bocca mostruosa continuavano a uscire frasi insolenti ed accusatorie contro di me:

-Sei un prepotente, un sadico! Come ti viene in mente di comprare delle camicie nere?

Alcuni passanti mi guardavano e si mettevano a ridere, altri acceleravano il passo cercando di evitarmi. Gli unici incuriositi da quella situazione erano i bambini, che puntavano il dito contro di me cercando di farmi notare dalle loro madri. Ho cercato di evitare lo sguardo altrui, ma quel pancione non la smetteva di parlare. All’improvviso ho visto una pallina da tennis per terra e mi è venuta un’idea. Per la prima volta da quando era apparsa quella bocca sulla mia pancia, mi sono rivolto a lei:

-Adesso ti sistemo io – le ho detto.

Ho afferrato la pallina da tennis e ho sollevato la camicia, ma la pancia mi ha risposto:

-Se mi infili quella pallina in bocca, ti distruggo il fegato a morsi.

-Porca miseria- ho pensato – meglio non rischiare.

Dopo una lunga negoziazione, ci siamo messi d’accordo per una tregua e abbiamo fatto un patto di non aggressione. Siamo giunti alla Plaza Altamira e lì ho deciso di sedermi e provare a ragionare con quel pancione. Mentre il resto del paese era in sospeso ad osservare le proteste dei militari contro Chavez, io ero alle prese con quella pancia parlante. Non potevo credere che, oltre ad essere intelligente, potesse avere il mio stesso livello di esperienza politica, così ho deciso di provare a trasformare quel patto di non aggressione in un programma di coesistenza pacifica.

-Ve bene – le ho detto – spiegami cosa vuoi da me.

Senza esitare, mi ha risposto:

-Mi interessa il potere. Voglio avere il potere di decidere. Fino ad ora sei stato l’unico a dominare questo corpo, ma in realtà non ti appartiene. E’ grazie a me che questo corpo sopravvive, sono io che lo alimento e che processo tutto il cibo che mandi giù.

Mi sono fatto forza e gli ho risposto:

-Smettila con queste idiozie rivoluzionarie! Come posso cederti il mio potere decisionale? Come farò a fare tutte le cose che devo fare, ad esempio andare a lavoro o studiare? Non è così semplice.

Le pance, lo sanno tutti, sono molto testarde e la mia non fa eccezione.

-Tu non fai niente per questo corpo, facciamo tutto noi, i tuoi organi. Io li rappresento tutti, e abbiamo deciso all’unanimità che sei superfluo, quindi ti elimineremo.

-Ma il mio corpo non può sollevarsi contro di me! Chi sono io? Non conto più nulla? – ho chiesto disperato.

-Nulla. Non esisti. Sei un prodotto della società inutile e irrilevante, come la maggior parte dei tuoi simili. Perciò noi pance ci siamo unite e abbiamo deciso di instaurare la dittatura del “panciariato” che porterà ad una forma di democrazia superiore.

La nostra conversazione andò avanti a lungo e la gente che camminava nella Plaza Altamira cominciò a depositare delle monete ai miei piedi. Credevano che avessi montato uno show politico mentre parlavo con la mia pancia, ed erano ben disposti a pagarmi per continuare ad esibirmi. Ogni volta che la pancia ribadiva i diritti del panciariato, ridevano tutti. Quando la nostra discussione terminò, mi accorsi che avevo accumulato moltissimi soldi e pensai che avrei potuto guadagnarmi da vivere in quel modo. In fondo, come avrei potuto tornare a lavorare in ufficio con quel pancione parlante? Sarebbe stato uno scandalo. E così, con quell’idea in testa, me ne tornai tranquillamente a casa.

La mattina seguente fui svegliato dalla voce rabbiosa della pancia che protestava. Si lamentava perché si stava annoiando, niente di meno. Guardai l’orologio e vidi che avevo ancora sufficiente tempo per fare colazione prima del mio appuntamento col dottore, ed andai in cucina. All’improvviso, mentre preparavo qualcosa da mangiare, vedo che dalla pancia fuoriescono un paio di mani, e poi due piedi. In preda al panico, ho chiamato il dottore e gli ho spiegato cosa stesse succedendo.

-Non si preoccupi – mi ha detto – succede spesso alla gente dopo i quarant’anni. Si tratta di una crisi di “demencia abdominalis”, ma appena la pancia smetterà di crescere la situazione si normalizzerà, anzi si acquista un forte senso pratico dinanzi alle difficoltà dell’invecchiamento. Purtroppo la scienza non ha ancora scoperto le cause di questo fenomeno.

Sbalordito da quella risposta, ho confermato che sarei andato all’appuntamento delle dieci. Ho riattaccato il telefono e in quel momento ho visto una spalla che fuoriusciva dal mio addome. Di lì a poco fui ingurgitato dal mio stesso corpo e sono diventato la pancia della mia pancia, che è diventata un corpo. Non so cosa faccia con questo corpo, perché non ho né occhi per vedere né bocca per protestare, ma non ho perso l’udito e ho sentito che il medico le diceva di non preoccuparsi, perché tutto tornerà presto alla normalità.

Ho deciso di organizzare una controrivoluzione e ho provato a parlare con i reni e i polmoni, ma non mi hanno preso sul serio. E’ intervenuto il fegato, e sapete cosa mi ha detto?

-Lascia perdere Fabrizio. I politici sono tutti uguali.



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mercoledì 6 settembre 2023

Paura e voglia di biscotti





Questa storia non è un racconto, ma un post che Fabrizio ha pubblicato su Facebook tempo fa. Non ha niente a che fare con le avventure del pazzo dei racconti precedenti, che ama inventare storie, anche se tutti sappiamo che in ognuna di esse c’è sempre un fondo di verità. Però qui supera sé stesso con la sua propensione a plagiare la realtà al punto che assolutamente tutto ciò che leggerete è vero.

Oggi mi sono comprato l’ultimo pacchetto di biscotti al burro, dopodiché dovrò farne a meno per molto tempo. Ho cominciato a comprarli poco più di un anno fa, proprio quando mi diagnosticarono un cancro, e da allora è diventata una consuetudine. L’oncologo, già dal primo appuntamento, mi aveva tolto tutte le speranze che si potesse trattare di una situazione non troppo grave. Alle mie domande affannose, aveva risposto con chiarezza:

-Non perderai la vescica - mi disse - però il tuo cancro è già al terzo stadio, il peggiore. Ci sono circa un 30% di possibilità di guarigione.

Bene, è già qualcosa, pensai. In realtà ero abbastanza contento di sapere che non si trovava in una fase incurabile, con metastasi e tutto il resto. Da buon ipocondriaco, ero pronto al peggio, e già mi immaginavo di dover andare in giro con un sacchetto attaccato alla vita con tutte le mie escrezioni dentro, e l’idea mi terrorizzava. Sapevo anche che, in quello stato, sarei rimasto da solo e certamente celibe. Quale donna avrebbe il desiderio di lasciarsi amare da un vecchio che deve portarsi costantemente dietro i suoi escrementi?

Mi sentivo profondamente triste, anche se continuavo a sperare che si trattasse di qualcos’altro. L’esame fatto dall’urologo aveva evidenziato la presenza di alcuni funghi nella vescica. Quelle immagini mi fecero pensare a quei funghi velenosi che sono mortali ed io capii che il mio cancro era il peggiore di tutti. Il primo medico a cui mi rivolsi mi disse che poteva essere qualcos’altro, ma vidi dello scetticismo nel suo sguardo. Quel giorno, uscendo dall’ospedale, comprai questi biscotti al burro per la prima volta, e li trovo solo qui. Devo dire che mi piacciono da morire.

Dopo la consulta con l’oncologo pensai che se mi avessero trovato questo male in Venezuela sarei certamente morto in breve tempo, a causa della scarsezza delle medicine necessarie per le cure più basiche, e mi sentii un po’ risollevato. Mi venne anche in mente che se fossi emigrato negli Stati Uniti avrei dovuto sborsare una fortuna per curarmi o fare causa a qualche assicurazione che, lo sanno tutti, non sono altro che associazioni a delinquere. Però nulla poteva diminuire la disperazione che sentivo in petto al pensiero terribile che forse sarei morto. E così quei biscotti al burro trovavano una giustificazione più che valida, e non mi importava nulla di quanto alto fosse il loro livello di zucchero o la quantità di lattosio che cominciavo a non tollerare più.

La chemioterapia non è stata difficile in quanto localizzata alla sola vescica, ma ho dovuto subire un trattamento spaventoso durante il quale mi viene infilato un tubo all’interno del pisellino. Dico pisellino e non pene o fallo o cazzo perché ai miei occhi e’ diventato un povero pisellino terrorizzato. Lì si infila il tubo fino ad arrivare alla vescica dove mi viene iniettata una sostanza chiamata BCG in inglese, che è una specie di liquido infiammante, simile ad un prodotto che si

vendeva in Venezuela, il Diablo Rojo, usato per stappare le tubature. Quando, due ore dopo avermelo iniettato, lo espello attraverso l’urina, devo fare attenzione a pulire il tubo con del cloro perché se il BCG fuoriesce e viene a contatto con la pelle, può causare delle ustioni. Immaginatevi che dovevo tenere questo liquido nella vescica per due ore. In realtà, dentro la vescica neanche si sente, ma da lì deve scendere nel glande e non vi dico neanche quanto brucia mentre scorre attraverso i tubi che collegano le varie parti dell’apparato urinario, che oltre tutto sono già state maltrattate durante l’inserimento del tubo e tutto il resto. Insomma, quei biscotti al burro erano più che giustificati dopo aver subito un tale abuso.

Dovetti sottopormi a questo trattamento durante varie sessioni per circa un anno, una volta a settimana, con delle interruzioni di cui non conosco il motivo, forse per permettere al corpo di riprendersi. Ogni volta che vedevo quei maledetti tubi, chiamati cateteri nel linguaggio medico, provavo un enorme terrore pensando che li avrebbero usati per pene-trarmi. Al termine del procedimento andavo dritto a comprarmi i biscotti al burro e me li mangiavo mentre tornavo verso casa, dove avrei dovuto aspettare ancora un’ora e mezza circa prima di poter espellere il BCG e sentirlo ardere attraverso i miei genitali. Non voglio aggiungere nessun altro dettaglio su questo trattamento perché a qualcuno tra i miei lettori potrebbe capitare di trovarsi nella stessa situazione e non voglio che creda che sia peggio di quello che è realmente. Tranquilli, è una passeggiata.

Ma quale passeggiata. Dopo vari mesi di maltrattamenti al mio povero pene guerriero, mi dissero che finalmente la nostra lotta era finita. I funghi erano scomparsi e non si erano riprodotti. La mia vescica era nuova di zecca, come quella di un bebè. Me la fecero perfino vedere quando mi fecero l’ultima cytoscopy, chissà come si dice in italiano … insomma, il cancro se n’è andato. Per fortuna che non perdetti tempo né scrivendo lunghissimi post su Facebook, né comprando candele o pregando qualche santo, né Gesù, né il santo padre, né la vergine Maria. Il mio ateismo ha resistito, e non ho neanche commesso l’errore di chiedere ai miei amici di condividere stronzate deprimenti sui loro profili, ma soprattutto non ho avuto la superbia di chiedere a nessuno di dare prova della loro amicizia leggendosi chissà quale storia sui reduci del cancro e lasciando poi un commento solidario.

Non mi è venuto neanche in mente di cominciare a mangiare carote o limoni col miele per curarmi il cancro, né di provare alcun’altra terapia alternativa. Mi sono unicamente affidato alla scienza e ai suoi medici, che lavorano efficientemente per scoprire i segreti della vita e le soluzioni ai problemi del nostro corpo. L’unica debolezza che ebbi fu quella di ricercare un po’ di piacere in quelle trasgressioni glicemiche che quei biscotti al burro mi regalavano al termine di quegli abusi che il mio povero guerriero doveva subire. Col passare dei mesi avevo cominciato ad abituarmi a quelle violenze alla mia virilità imposte da quel trattamento medico, tanto che mi sentivo quasi felice quando mi recavo in ospedale e potevo comprarmi quei biscotti al burro.

Oggi mi hanno comunicato che sono guarito e dovrò andare in ospedale solo una volta ogni sei mesi per dei controlli, così all’uscita dall’ospedale mi sono comprato due pacchetti di biscotti, per tirarmi un po’ sù di morale. Come sempre, ho scelto quelli più semplici, al burro. Li adoro.








Il messaggero Carlos


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Subito dopo essermi tolto la vita, la prima persona che incontrai fu Carlos. Proprio lui, Carlos, e non qualcun’ altro, come per esempio mia nonna, che era esattamente la persona che mi sarei aspettato di incontrare se avessi saputo che c’è gente ad aspettarci dopo la morte. Ma così è la vita, si commettono errori di continuo, ed io cominciavo già col piede sbagliato, equivocandomi, e così al posto di mia nonna, o di Manola, mi apparve Carlos.

Non fu neanche Dio ad apparirmi, e qualcuno tra voi penserà che è probabilmente occupato a ricevere altre persone, o magari starà godendosi una pausa dai suoi tanti impegni, facendo chissà che, però di una cosa sono certo: a quelli che si sono ammazzati non gli parla, per lo meno non a me, forse perché ce l’ha con me. Non vidi nemmeno il Diavolo per fortuna, né alcun santo, d’altronde io, da ateo, certamente non me lo aspettavo. Insomma, non ebbi nessuna visione religiosa, né scorsi alcun personaggio importante che mi avrebbe potuto interessare. Essendo venezuelano, mi potrebbe piacere farmi una chiacchierata con quel poveraccio di Bolivar, che quasi sicuramente appare solo ai chavisti, giusto per dargli una bella strigliata ogni tanto, e se così fosse, spero che abbia riempito di botte quel disgraziato di Chavez. Ma in realtà non accadde nulla di tutto ciò e non vidi nessun personaggio importante, né alcun parente o qualche antenato, e nemmeno la mia cara nonna, che mi dedicava tanto tempo raccontandomi storie.

Non fu uno sconosciuto ad apparirmi, o un qualche funzionario dell’oltretomba, ma Carlos, un amico che avevo conosciuto durante il mio ultimo periodo in Inghilterra, prima di suicidarmi. Ci eravamo incontrati presso il Refugee Council, dove io lavoravo come adviser e advocate, che in pratica significa che il mio compito era quello di sedermi dietro ad un tavolo in una stanzetta senza finestre ad ascoltare le storie di quei migranti pieni di rabbia e frustrazione, per poi dar loro qualche consiglio su come fare per uscire dai guai in cui si trovavano, che spesso erano peggiori dei miei, e non è una cosa da poco, dato che sono sempre nei casini, non solo quelli che la vita mi distribuisce con generosità, ma anche quelli che mi creo da solo, che non sono pochi. Il mio ruolo era quello di aiutare i rifugiati durante il periodo di attesa dei documenti necessari per vivere in Gran Bretagna, che può durare anche più di dieci anni, e assicurarmi che il governo britannico li trattasse degnamente. Il mio compito non era affatto facile, soprattutto a causa dei funzionari di un organismo dipendente dal famigerato Home Office, chiamato NASS, conosciuto a livello internazionale per la sua cieca cattiveria, che sembrava essere addirittura peggiorata dopo la Brexit. Questi funzionari, difficili da dimenticare perfino nell’aldilà, erano convinti che la loro missione nella vita fosse quella di rendere l’esistenza di quei rifugiati misera, lugubre e priva di libertà. Uno dei malcapitati contro il quale si accanirono maggiormente, fu proprio il povero Carlos.

Il giorno che lo conobbi mi resi conto di quanto i miei colleghi al Refugee Council fossero incapaci di comprendere realmente la situazione dei rifugiati. Non che io fossi un rifugiato come loro, anzi non facevo neanche parte di quella categoria secondo la definizione legislativa, infatti a differenza loro ero in possesso di una cittadinanza, quella che avevo ereditato dai miei antenati italiani, che mi permetteva di attraversare qualunque frontiera desiderassi; mia mamma mi aveva sempre parlato in italiano, correggendo gli spagnolismi che a volte si mescolavo alla sua lingua d’elezione, e mia nonna mi raccontava storie della sua infanzia in Italia, che a volte registrava su nastro in modo che potessi ascoltarle anche quando non c’era. Nonostante i miei colleghi fossero a conoscenza delle mie origini italiane, sapevano anche che ero scappato dal Venezuela a causa del governo di Chavez, poco prima che il chavismo mostrasse il suo vero volto al mondo, e mi consideravano per questo un rifugiato anche se in realtà non lo ero, per lo meno da un punto di vista giuridico. E così un giorno un collega mi disse, con tono complice:

-Hey Fabrizio, è venuto  un signore venezuelano, sono sicuro che ti va di conoscerlo …

La segretaria della reception aveva aggiunto, anche lei con una specie di atteggiamento solidale:

- Fabrizio, un compaesano!

L’addetto alla sicurezza, un pakistano di Bradfort che parlava inglese con un forte accento tipico del suo paese di origine, si era unito al coro:

-Hey Fab, c’è un tipo del tuo paese, vuoi conoscerlo?

Come potevano pensare che io avessi alcuna intenzione di conoscere un altro venezuelano, se ero scappato da lì a gambe levate proprio perché non sopportavo più quella vita mediocre sotto il potere del chavismo? Neanche Carlos aveva alcun interesse a conoscere me: tutti e due evitavamo i venezuelani come la peste, per una semplicissima ragione: non volevamo correre il rischio di trovarci dinanzi ad un chavista, ancor meno un chavista in incognito. E’ ovvio che, in un paese freddo e buio come l’Inghilterra, ci siano giorni in cui si senta la mancanza delle hallacas, delle arepas e del queso de mano, e soprattutto della bulla de fondo che è un elemento tipico della Colombia e di tutto il Caribe, con quel ritmo inconfondibile di cumbia e salsa, però nessuno vuole rischiare di avere a che fare con i responsabili del degrado del nostro paese. E poi c’è sempre il dubbio che possa trattarsi di una spia che il governo ha inviato per investigare su di noi, in qualcosa dovrà pur spenderli tutti quei reales il governo chavista, non potrà mica rubarseli tutti. Mi rimaneva il dubbio di come fosse possibile che i miei colleghi inglesi non potessero immaginarsi tutto questo, nonostante gli avessi spiegato centinaia di volte che il governo di Chavez era una truffa bella e buona. Alla fine lo conobbi e contro ogni aspettativa diventammo amici, infrangendo così le regole del Refugee Council, le leggi della Gran Bretagna e le sue norme di comportamento, e nonostante passassimo poco tempo insieme, erano momenti preziosi, di qualità, durante i quali condividevamo un’intimità che solo si riesce ad avere con persone del proprio paese di origine, mangiando arepas de reina pepiadas e taquenos improvvisati e ricordandoci di Juan Griego, della spiaggia di Guacuco  e della sua zuppa locale. Carlos divenne un amico, anche se lo fu solo per un breve periodo, e come stavo raccontando, quando aprii nuovamente gli occhi dopo essere morto (e che sia chiaro a tutti che quest’idea dell’ aprire gli occhi è solo una metafora per dire che ebbi modo di vedere il mondo dell’aldilà), fu proprio lui che vidi lì dinanzi a me, con l’aria più tranquilla del mondo. Che vita assurda, o meglio, che vite assurde pensai, sia quella prima di morire che quella dopo, mentre Carlos mi guardava sorridendo, con aria sorniona. Per un po’ di tempo, nessuno dei due parlò.

-Scusami Carlos, però non capisco … sono confuso – dissi finalmente.

-Non preoccuparti, ci sentiamo tutti un po’confusi dopo essere morti – mi disse, ed io rimasi colpito per la  logica coerente ed al tempo stesso assurda di quella situazione  così complicata. Proprio in quel momento pensai che la cosa migliore sarebbe stata quella di fargli una domanda intelligente, perché non potevo assolutamente permettermi di cominciare quella nuova vita con tanti errori. Non sia mai che in questa nuova vita dopo la vita non riesca a fare di meglio, sarebbe il colmo! Ma la situazione peggiorò nel momento in cui Carlos, dopo essersi seduto su una poltrona (eh già, ci sono poltrone e quant’altro anche nell’aldilà), disse queste parole con aria di noncuranza:

- Il Comitato ha stabilito che fossi io il primo a parlare con te.

-Ah ah – pensai. Questa dichiarazione era talmente lontana da ciò che avrei potuto immaginare che potesse accadere in un mondo parallelo alla realtà da sembrarmi una completa fesseria, ma nonostante ciò mi sarei aspettato qualcosa di completamente diverso da questa prima frase pronunciata in quel tono così freddo e meccanico. Mi sforzavo per accettare quella nuova realtà così assurda, mentre una valanga di pensieri e idee si accumulavano nella mia testa, come per esempio il fatto che ci sia vita dopo la morte, che esista quindi un’altra opportunità. Proprio io, che ero stato ateo durante tutta la mia esistenza precedente, non avrei mai immaginato che ci potessero essere persone ad aspettarci dall’altra parte, come Carlos. Ma questa apparente fortuna ha un risvolto negativo, proprio come nella vita precedente, perché queste anime si riuniscono in Comitati, e l’ultima cosa che uno spera dopo essere morto è quella di ritrovare una burocrazia nell’aldilà, con tanto di emissari e incaricati. Al diavolo il Comitato e tutta questa farsa, certamente non sono morto per risvegliarmi in un ufficio. La mia mente era in subbuglio, proprio come nella mia vita precedente, e notai che la poltrona nella quale stava seduto Carlos era rossa, di quelle morbide e comode su cui poter adagiare mollemente il proprio corpo, ma perché sedersi in una di quelle poltrone se non si possedeva neanche un corpo vero e proprio ma solo una pallida copia di esso?

Dio mio, pensai. Adesso posso proprio dirlo. Magari quando meno me lo aspetto, me lo vedo apparire davanti mentre pedala beatamente su una bicicletta, o magari mentre mangia un bel pollo arrosto, chissà. La mia mente saltava da un pensiero all’altro, come se volasse, ma non durò a lungo perché Carlos disse, dopo quel breve silenzio:

-Dunque, il Comitato non ha approvato la tua decisione di suicidarti -. Proprio ciò che mi mancava, pensai.

Avevo appena cominciato quella nuova vita da morto e avevo già infranto delle regole, ero già diventato un criminale, ma la cosa peggiore era che mi avevano scoperto ed erano venuti ad ammonirmi. Quella nuova realtà cominciava proprio male e per giunta non mi facevano neanche la cortesia di lasciarmi morire in pace. Se dopo essersi ammazzati si torna a vivere, l’ultima cosa che uno vorrebbe è quella di essere giudicato per la propria decisione, eppure la mia nuova vita cominciava da dissidente, proprio come la vita precedente, con questa ossessione di guardare le cose in maniera distinta a come le vedono gli altri, alla faccia dei loro Comitati. La somiglianza tra quei due mondi, quello dell’aldilà e quello della mia vita terrena, cominciava a spaventarmi. Ma in questa nuova dimensione il mio istinto di sopravvivenza mi spingeva ad aspettare e ragionare, anche solo per poco tempo, prima di esprimere il mio disaccordo; nella mia vita precedente invece, ero abituato a dire la mia in maniera impulsiva, senza preoccuparmi delle conseguenze. Me iba de bocon, da bravo creolo, terminando sempre in qualche guaio. Decisi quindi di aspettare e capire meglio quale fossero le procedure e le modalità di quella nuova vita, e smettere una volta per tutte di sentirmi un disadattato ogni volta che mi ritrovavo a vivere. Mi feci coraggio e decisi che avrei approfittato di quell’amicizia che avevo proprio tra le fila del Comitato che mi giudicava: Carlos poteva diventare  il mio trampolino di lancio nell’aldilà, e così decisi di provocarlo con una domanda che lo avrebbe costretto a mettersi nei miei panni, cominciando una lunga serie di sotterfugi e stratagemmi proprio come nel mondo che avevo conosciuto in vita. Interrompendo il suo discorso, gli dissi:

-Ascolta Carlos, non starai mica cercando di dirmi che le tue ragioni per ammazzarti erano giuste, e le mie no?-. Mi resi immediatamente conto della mancanza di tatto delle mie parole,  e pensai che quella strategia avrebbe forse potuto funzionare nell’altra vita, ma chissà se anche in questa. Appena mi ebbe risposto, mi resi conto che almeno una cosa era rimasta uguale: la nostra amicizia.

-I ricordi terribili di quando quei maledetti del collettivo di Serra mi affogarono nel Guaire e mi fecero mandare giù tutta quella merda non mi davano pace. Non ne potevo più – mi disse tranquillamente, giustificando il suo suicidio.

– Non dimenticarti che qui sappiamo tutto- aggiunse. Facevo fatica a mantenere la lucidità. Capivo che la franchezza con cui mi aveva risposto era la dimostrazione che la nostra amicizia proseguiva, ma quella situazione continuava a confondermi e non mi era affatto facile seguire il suo ragionamento né potergli rispondere. Quando mi disse che nell’aldilà erano a conoscenza di tutto, ne fui terrorizzato. Ciò voleva dire che non esisteva alcun tipo di privacy in quel mondo, nonostante non avessi molto da nascondere, però questa rivelazione dava spazio a mille altre domande sul funzionamento di quel mondo dove addirittura vi erano Comitati che si affannavano a giudicare se una persona si fosse suicidata per le ragioni corrette. Ma siccome il cameratismo e la franchezza sembravano essere gli stessi in quel nuovo mondo, gli risposi:

-Non essere imbecille, tu avevi moltissimi amici in Inghilterra, una nuova vita, addirittura un gruppo rock con cui avevi cominciato a suonare. E ti sei ammazzato come uno stronzo. Non ci posso credere.

Carlos rideva mentre con le mani faceva dei gesti come se volesse dirmi di andare avanti, tanto non sapevo nemmeno quello che stavo dicendo. Ed io continuai:

-Addirittura la polizia venne ad investigare se la tua morte fosse stata in realtà un omicidio- dissi, per metterlo a disagio. Fece un gesto come per cercare di sminuire ciò che avevo appena detto. Nonostante la sua apparente indifferenza, mi feci coraggio e continuai, alzando un po’ la voce:

- Il giorno del tuo funerale, se avessi visto … - ma non mi fece terminare. Con un brusco gesto della mano mi interruppe, lasciandomi in balia dei miei ragionamenti che fluivano a tutta velocità. I ricordi di quel giorno riaffioravano improvvisamente alla memoria, mentre Carlos guadagnava tempo per formulare la sua risposta. Era stato uno dei funerali più belli a cui avessi mai partecipato, nonostante avessi sempre pensato che si trattasse di avvenimenti piuttosto macabri. Improvvisamente tutti si ricordano di quanto ti hanno amato, anche coloro che neanche ti saluterebbero se ti incontrassero per strada. Avrei voluto raccontargli che quel giorno ci riunimmo per compiangerlo, ed io ero l’unico venezuelano tra tutti i partecipanti. Eravamo increduli e confusi per quell’inaspettata morte che Carlos si era procurato iniettandosi una dose di insulina nel corpo, senza neanche essere diabetico. Eravamo tutti lì disperati, chi seduto sul divano, chi per terra. Uno dei presenti, un uomo a piedi nudi con una sciarpa rossa sulle spalle, si era alzato all’improvviso e aveva cominciato a fare un discorso su quanto Carlos fosse stato una persona straordinaria, accennando a dei particolari che non ricordo esattamente ma che probabilmente avevano a che fare con la sua passione per la musica, soprattutto per la chitarra elettrica, e aveva concluso il suo discorso chiedendoci di ricordarlo così. Era seguito un lungo silenzio, dopodiché un’altra amica, anche lei senza scarpe ma con indosso un calzino di un colore e uno di un altro, aveva preso la parola e aveva condiviso un altro ricordo sul defunto, raccontando di un giorno in cui Carlos aveva preparato delle arepas che lui aveva giudicato immangiabili, e fece una battuta a cui tutti avevano riso tranne io, perché fui l’unico che non la capì. Quello che volevo dirgli era che se avesse saputo quanta gente lo amava non gli sarebbe mai passato per la testa di suicidarsi. Avrei voluto fargli capire che la sua vita era stata ben diversa dalla mia, ma con quel repentino gesto mi aveva chiesto di tacere e fatto capire che c’era qualcosa che non sapevo ma che presto mi avrebbe rivelato. Morivo dalla voglia di raccontargli del discorso che aveva fatto Lou, che mi aveva particolarmente colpito perché sapevo che si adoravano, la quale aveva ricordato il giorno in cui si erano conosciuti a Caracas, quando Carlos era ancora un chavista e lei stava scrivendo la sua tesi di dottorato sull’autonomia alimentare del Venezuela, anche lei piena di entusiasmo per il processo rivoluzionario del paese. Volevo dirgli di quel discorso, ma nuovamente mi indicò di fare silenzio, finchè finalmente parlò:

- Ho visto il mio funerale, anzi i miei tre funerali – mi disse con una risata leggermente sarcastica, ma benigna.

- Cavolo, hai visto il tuo funerale? - risposi a bocca aperta, anche se ormai stavo abituandomi a quelle continue sorprese, e avrei voluto chiedergli di quegli altri funerali di cui non sapevo nulla, perché oltre quello ufficiale a distanza di pochi giorni dalla sua morte, ce n’era stato solo un altro, diciamo informale, il giorno in cui la polizia aveva restituito il corpo.

-Si, certo - disse – E’ stato il giorno più bello della mia vita, peccato che fossi morto. Tutti ti vogliono improvvisamente un mondo di bene e fanno dei bellissimi discorsi su di te. Quando ho fatto vedere il video di quella giornata agli altri compari venezuelani quaggiù al Cinetrip, sono morti d’invidia.

-Ah - risposi, come se quell’accenno ad un cinema nell’aldilà fosse una cosa del tutto normale, e per cercare di mantenere quel tono più rilassato e divertente aggiunsi:

-Se lo avessimo saputo, avremmo potuto organizzare i nostri funerali prima di morire, cosi poi invitiamo qualche amico e ce li riguardiamo insieme nel Cinetrip.

-Non sei cambiato affatto - mi disse. – Sei sempre il solito burlone.

-Beh, non è che si muoia tutti i giorni, bisogna approfittare dell’opportunità. Se fossimo a conoscenza di questa vita dopo la morte, sicuramente in Venezuela si organizzerebbero delle vere e proprie feste e i funerali sarebbero certamente meno macabri.

Il nuovo tono che aveva preso la conversazione mi aveva fatto quasi dimenticare del tutto quel fastidioso problema del Comitato e della validità o meno del mio suicidio, mentre avrei voluto continuare a parlare del Cinetrip perché mi sembrava una cosa davvero divertente e interessante, e stavo già cominciando a domandarmi se in quella nuova vita avrei sentito la mancanza di tante altre comodità a cui ero abituato nella mia vita terrena, come il telefono cellulare ad esempio. Ma all’improvviso il pensiero di ritrovarmi con tutti i problemi della vita pre-morte mi assalì, e avrei voluto chiedergli che mi desse qualche informazione in più, ma non feci in tempo. Con un tono nuovamente serio e solenne, Carlos riprese a parlare:

-Allora, amico mio, ti ripeto che da parte del Comitato non abbiamo potuto accettare il tuo suicidio.

-Non mi starete venendo a dire che devo pagare una multa o qualcosa di simile! Non crederai mica di essere l’unico ad essersi ammazzato per le ragioni corrette. Hai visto quanta gente c’era al tuo funerale …

- Ascoltami - disse interrompendomi, senza perdere la calma - il giorno del mio funerale Lou disse che eravamo stati molto vicini ed io le voglio molto bene. Mi fece vivere in casa sua e fece in modo che la mia famiglia mi trattasse come un figlio, però non volle mai aiutarmi con le cose riguardanti il nostro paese. La sua tesi universitaria fu usata come prova per dimostrare che le politiche alimentari del Venezuela erano valide, perfino la FAO ci credette. Non prendiamoci in giro, queste cose mi fanno ancora stare male.

Sapevo che per Lou era stato difficile accettare le nostre denunce su quello che stava accadendo in Venezuela, ma alla fine, per coerenza e onestà intellettuale, aveva smesso di difendere i principi dietro il processo rivoluzionario boliviano, anche se non volle mai affrontare quella realtà che aveva scoperto in prima persona, ovvero che i militari boliviani sono dei corrotti, dei bugiardi e dei torturatori, soprattutto quando le dicevo che i socialisti devono assimilare il concetto di controllo del potere e imparare a gestirlo, proprio come qualunque democrazia liberale. Ciò che stava accadendo in Venezuela la destabilizzava perché la poneva in una posizione di antagonismo rispetto al partito Labourista, per cui bisognava appoggiare Chavez o si rischiava di essere giudicati dei venduti. Nel frattempo i giornali avevano scritto che Carlos soffriva di disordine post-traumatico e si era suicidato perché non riusciva a sopportare i ricordi di quando lo avevano torturato. Mentre pensavo a tutto ciò, Carlos andava avanti col suo discorso.

-Sul piano personale, Lou fu sempre dalla mia parte. Il ricordo di tutto ciò che fece per me mi commuove, e penso che abbia fatto più di quello che io feci per lei. Nessuno mi credeva quando denunciavo ciò che sapevo sul chavismo, ma a lei l’avrebbero ascoltata, almeno all’interno del suo circolo di amici, gli amici degli amici, i suoi colleghi e così via. Purtroppo Lou credeva che gli abusi di Serra fossero un caso isolato dentro l’ingranaggio del sistema, nonostante il suo legame con quel figlio di puttana di Diosdado. Per lei si trattò sempre di personaggi corrotti che indebolivano il governo chavista e non le passò mai per la testa che tutto il sistema potesse essere un errore, un’enorme bugia e un trampolino di lancio per costituire una nuova oligarchia da parte dei militari: la boliborghesia.

-Un momento – lo interruppi. - Guarda che non sono mica un sostenitore della sinistra inglese, conosco molto bene Diosdado e i suoi seguaci.

-Eppure, anche tu mi hai tradito! – disse, alzando leggermente la voce

- Come?- chiesi.

-Per cominciare, non partecipasti mai agli eventi che volevo organizzare all’università per sensibilizzare l’opinione pubblica su quello che stava accadendo in Venezuela.

- Ma non ne valeva la pena! - mi giustificai – Lo sai anche tu che agli inglesi non importa niente dell’opinione degli altri,  credono di sapere sempre più di tutti. Con uno come me non si mettono neanche a discutere. Prima fanno finta di ascoltarmi, poi fanno donazioni all’ambasciata venezuelana per contribuire al mantenimento dello status-quo. Non ci crederai, ma l’ha fatto perfino gente che era al tuo funerale.

-Anche tu mi hai tradito. E in un modo più profondo, quindi ancora più grave.

-Ancora con questa storia? E come ti avrei tradito?- chiesi quasi con rabbia.

-Il giorno del mio funerale, mi facesti una promessa. Dicesti che avresti scritto una storia su Sofia, ti ricordi? E le promesse ai morti ammazzati si devono mantenere, altrimenti si incorre in un’infrazione gravissima. Così grave da essere ritenuta un vero e proprio crimine nell’aldilà, per questo il Comitato ti sta alle calcagna.

Mi ero quasi nuovamente dimenticato di dove mi trovassi, di quello che era successo e che mi trovavo già nei guai nonostante avessi appena cominciato una seconda vita dopo la morte. Avevo commesso un crimine nell’aldilà, peraltro contro un amico e un compatriota.

-Porca miseria, perdonami, non era mia intenzione di tradirti. Quando feci quella promessa ero sincero, ma le cose poi hanno preso un’altra piega.

-Ascoltami – mi rispose -  gli scrittori in difficoltà riescono a trovare l’ispirazione per scrivere meglio di quelli a cui la vita scorre senza alcun problema.

-Sono d’accordo, amico mio – cominciai a spiegargli – ma mi hanno licenziato da tutti i lavori che ho provato a fare.

- Ma la storia che mi avevi promesso di scrivere, perché non l’hai scritta? Ti avevo creduto e non immagini neanche quante speranze avevo riposto in te.

Avrei voluto provare a giustificarmi, dandogli qualche altra spiegazione sulla mia malasorte e le mie miserie terrene, ma non mi lasciò parlare.

-Fabrizio, devi capire una cosa: in questo nuovo mondo dell’aldilà siamo tutti in attesa di qualcosa, e impariamo ben presto l’arte della pazienza. Adesso toccherà anche a te di imparare questa grande arte. E’ stata proprio l’impazienza a spingerti al suicidio, e questo è inaccettabile. Tu volevi vivere e scrivere e avresti trovato la maniera per farlo, però hai deciso di ammazzarti.

Avrei voluto rispondergli che non era stata l’impazienza a farmi morire, ma proprio il bisogno di vivere e la sua conseguente impossibilità, perché io in effetti volevo vivere ma non ci riuscivo più, costretto com’ero a portare avanti un’esistenza precaria e a lavorare in qualunque condizione, perfino ritrovandomi a tagliare rametti d’uva pur di sopravvivere.

-La pazienza, amico mio … - riprese.

-Fammi spiegare, Carlos …

-Porca miseria, Fabrizio! Ascoltami!- urlò all’improvviso.

-Ma quale pazienza! Mi stai urlando nelle orecchie! – gridai. Quel mondo assomigliava davvero a quello vecchio.

-Ascoltami, Fabrizio. Non permetteremo che tu muoia.

-Eh no, amico mio, questo proprio non posso accettarlo! Tutti coloro che muoiono rimangono morti, poi arriva il mio turno e cosa scopro? Di essere il primo ed unico morto che deve tornare in vita, ma com’è possibile? Non voglio nemmeno pensare allo spavento che potrei causare a tutti quelli che mi hanno conosciuto, penseranno che sono un fantasma, o ancora peggio, uno zombie.

Intanto Carlos continuava a ridere tra sé e sé, mentre cercavo di far valere le mie ragioni

-Ma se nessuno si accorge che sei morto, ti possiamo far tornare in vita senza alcun problema.

-No, amico mio, per favore, non sopporto più quella vita, portami da questo maledetto Comitato che ci parlo io con loro. Voglio continuare ad essere morto in quella vita e ricominciare da capo in questo mondo, posso esservi utile anche qui, te lo posso giurare.

-Perfino da morto continui ad essere testardo. Addirittura vuoi continuare a darti da fare in questo mondo, magari cercarti un lavoro qui. Mi viene da ridere, però non possiamo accettarti qui, mi dispiace.

-Non ti dispiace affatto.

-Non dire così. Ci dispiace davvero, e per questo motivo vogliamo aiutarti a scrivere il tuo libro.

Adesso le cose cominciavano a prendere una piega diversa. In fin dei conti, potevo anche tornare in vita, in fondo non sarei stato di certo l’unico a dover vivere per sempre, il colmo della sfortuna per colui che si suicida. Va bene, pensai, avrei prestato attenzione a tutti i dettagli riguardanti il mio ritorno nel mondo.

-Tutti coloro che ritornano in vita non ricordano nulla dell’aldilà - Carlos cominciò a dire - Però con te faremo un’eccezione, perché devi assolutamente portare avanti il tuo libro. Quindi, ricordati queste parole: devi tornare indietro e cercare i mezzi per continuare.

Adesso le cose si mettono male, pensai, perché avevo provato a farlo in ogni modo ma non c’ero riuscito.

-E ci riuscirai – aggiunse.

Questo mi piace, a patto che non mi ci vogliano altri vent’anni.

-Noi ti daremo un indizio di dove cercare. Dai un’occhiata al tuo telefono e al tuo computer. E’ tutto.

-Eh no, non mi potete lasciare così! Ditemi di che vivrò!

E proprio in quel momento mi risvegliai. Ero di nuovo nella mia stanza, e accanto al letto vidi il comodino e il tubetto di pillole che avevo ingerito per ammazzarmi. Porca miseria, ero tornato nel mondo dei vivi, e non potevo neanche pensare di riprendere quelle pillole ed ingoiarle, perché di sicuro al risveglio me le sarei ritrovate di nuovo  su quel comodino ad aspettarmi, all’infinito. Mi alzai dal letto e mi avvicinai alla finestra, e quando scostai la tenda, vidi il cielo coperto di nuvole e capii che ero di nuovo in Inghilterra. Che peccato di non avere avuto neanche il tempo di rivedere il mio funerale al Cinetrip, né di salutare mia nonna o tutti i miei amici più cari. Se avessi saputo prima come stavano le cose nell’aldilà, non avrei perso tempo come mi sembrava di aver fatto. Presi il telefono e controllai tutte le applicazioni, ma non trovai niente. Poi feci lo stesso col computer, ma non c’era nulla neanche lì. Guardai di nuovo, e vidi che le pagine del libro che avevo cominciato a scrivere erano state eliminate, e ricordai che le avevo cancellate prima di suicidarmi perché non volevo che il mio romanzo fosse pubblicato postumo senza alcuna correzione. Rimanevano solo i miei racconti, perché li avevo salvati su una pagina web. Al diavolo il Comitato e tutti i morti dell’inferno, porca miseria!

Decisi di uscire e cercare qualcuno che potesse dare un’occhiata al mio computer. Presi un autobus, dato che avevo venduto la mia macchina, e mentre aspettavo di arrivare a destinazione, sento il suono della notificazione di un messaggio sul telefono. Era un mio amico, Arturo, un banchiere che aveva guadagnato una fortuna grazie alle sue connessioni con il governo boliviano dopo essere diventato chavista. Purtroppo era caduto in disgrazia ed era anche finito in carcere per alcuni reati minori, e l’ultima volta che avevo parlato con lui mi aveva confidato che aveva perso parecchi milioni durante la crisi.

Il suo messaggio diceva: “ Ciao Fabrizio, ci sei? Sto per compiere sessant’anni e non so più cosa fare. Che progetto cominceresti se fossi al posto mio?”. Decisi di rispondergli con un messaggio vocale, e cominciai a parlare in spagnolo mentre registravo la mia voce col telefono. Con la coda dell’occhio, vidi una donna piuttosto anziana che mi guardava infastidita, e anche suo marito che era seduto accanto a lei sembrava quasi arrabbiato. Con un forte accento del nord, la donna cominciò a parlare rivolta verso di me:

-Now that we’ve won the referendum, we’ll have Brexit. You better speak English.

Senza scompormi, le risposi:

-Finchè le mie tasse continueranno a pagare le vostre pensioni, parlerò la lingua che mi pare - Gli altri passeggeri, all’udire quella risposta, applaudirono all’unisono. Significava che non tutto era perduto. In quel momento apparve Carlos.

-Che ci fai qui? – gli chiesi.

-Sono venuto a dirti che ci siamo sbagliati, Arturo non ti aiuterà.

-E chi mi aiuterà allora?

-Nessuno.

-E come farò?

-Non ne ho idea. Prova a scrivere un racconto su quanto sia difficile scrivere la storia di Sofia … poi se ti stufi dell’Inghilterra puoi sempre andartene in Italia, nella terra dei tuoi avi.

-Ma io scrivo tutto in spagnolo – risposi.

- Conoscerai Isabella, a Palermo. Lei tradurrà tutto.

 

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venerdì 1 settembre 2023

Due domande a Mamosta

 



Zaid era un utente del British Refugee Council, l’ufficio dove lavoravo. La prima volta che lo conobbi dovetti prendere i suoi dati personali nome, cognome e nazionalità per poterlo registrare nel nostro sistema. Quando gli chiesi se fosse musulmano, seguendo il formato della griglia che dovevo obbligatoriamente riempire, mi disse che ero un razzista. Immediatamente mi resi conto di essere di fronte a uno di quegli utenti ben testardi, anche se c’era qualcosa in quel suo atteggiamento aggressivo che mi piaceva, nonostante fosse rivolto contro di me. Ma questo era solo un caso. Gli mostrai la griglia che dovevo riempire, dove c’erano le caselle che indicavano le religioni più diffuse tra gli utenti del nostro servizio per i rifugiati.

-Ascolta – gli dissi – non è che io mi interessi di religione, ma qui c’è una casella che devo riempire con una X nel caso in cui tu sia musulmano – e gli misi davanti il foglio con la griglia, in modo che si rendesse conto che non c’era nulla di personale, ma che si trattava solamente della procedura.

Vorrei chiarire che io non potevo sapere quali tipi di ragionamento potesse fare, trattandosi di un iracheno, ovvero di una persona appartenente ad un’altra cultura; il suo nome era Zaid, vale a dire un uomo proveniente dal mondo islamico anche se era più ateo di Voltaire. Di fatto, tutti gli iracheni che conoscevo, che erano molti, erano musulmani, quindi non avevo la più pallida idea di cosa potesse passargli per la testa per pensare così, ma ero certo che si trattasse di qualcosa di molto interessante, anche se sbagliato. E per quanto fallace fosse il suo ragionamento, sicuramente quello non era il momento giusto per mettermi a discuterne con lui, quindi mi limitai a fornirgli la prova che mettesse alla luce i suoi pregiudizi. Mi sporsi in avanti in modo che potesse vedere bene il foglio. Anche lui si sporse in avanti, lo osservò con attenzione e fece un cenno con la testa come per dire: lo sapevo di avere ragione.

-Ci sono varie opzioni su questo foglio. Un’opzione è che io sia musulmano, un’altra che io sia ateo o agnostico. Perché fra tutte hai dato per scontato che fossi musulmano? – mi disse.

Ma guarda un po’ che furbo, pensai. Sicuramente penserà che sono uno di quelli che crede che sono tutti musulmani in Iraq, ed era ovvio che non era così. Forse i miei colleghi inglesi potevano sbagliarsi, dato che la maggior parte di loro non leggeva nulla, e nel tempo libero si dedicavano completamente alla famiglia, o ad ubriacarsi se erano da soli. Io invece avevo imparato qualcosa sul popolo kurdo in Venezuela e sapevo qualcosa sull’Iraq, anche senza conoscere alcun kurdo o iracheno, grazie alle pubblicazioni del centro Gumilla, a cui sarò sempre debitore per la mia formazione più che alla mia alma mater, e a vari studi effettuati da alcuni esponenti del MIR. Sapevo che c’erano degli ebrei in Iraq, anche se Saddam Hussein aveva cercato di sterminarli, e potevo immaginare che ci fossero molti atei dato che il movimento battista era di tipo secolare e aveva appoggio anche tra le fila dei non religiosi. E questo furbetto di Zaid crede che sono un ignorante qualunque, pensai, ma in ogni caso non sarei caduto nell’errore di dirgli che sapevo già che non erano tutti musulmani. Un pensiero ancora più interessante mi balzò alla mente: forse si tratta di un dissidente religioso che non è d’accordo con il sistema culturale del suo paese e sta cercando di affermare la sua identità ed io, come uno sciocco, solo per conformarmi a questi protocolli della burocrazia britannica, non ho avuto neanche la delicatezza di sincerarmi di come stanno davvero le cose. Se solo seguissi il mio istinto e le mie intuizioni, che funzionano meglio … Ma sapevo di non essere lì per dimostrare la mia solidarietà con le sue scelte politiche o religiose, ma solo per fare il mio lavoro, così decisi di ricorrere ad alcuni dati statistici. Gli dissi:

-La maggioranza degli iracheni sono musulmani. Tutti gli iracheni che sono venuti in questo ufficio lo sono, ma la cosa più importante è che io non ho nulla contro i musulmani.

Zaid faceva cenno di assentire con la testa e mi guardava con un’espressione soddisfatta come se con quelle parole gli stessi dando ragione. Mi sentivo un po’ a disagio.

-Quindi il fatto che io abbia pensato che tu fossi musulmano non ha niente a che fare con un mio pregiudizio nei tuoi confronti, dato che statisticamente sarebbe alquanto probabile che lo fossi, e per me non ci sarebbe nulla di male. Sto solo cercando di fare il mio lavoro.

-E tu, sei musulmano?-mi chiese.

-No, non lo sono. Ma che c’entra?

-C’entra. Sei credente? – aggiunse. Le sue domande cominciavano a darmi fastidio perchè il tempo che potevo dedicare ad ogni utente era limitato, e se c’era qualche problema da risolvere, dovevo farlo il più velocemente possibile, altrimenti avrei dovuto vedermela con i miei superiori, che giudicavano il mio operato solo in base alla durata dei miei interventi. Gli risposi:

-Non sono credente – ma immediatamente rincalzò:

-Quindi, se non sei credente, ritieni che tutte le religioni sono solo delle superstizioni ben congeniate. Non è così?

Cercai di rispondere con cautela, perché mi resi conto di avere dinanzi una persona complicata, furba, capace di ragionare ma molto testarda e con voglia di perdere tempo, ma io non ne avevo alcuna intenzione.

-Mi sono fatto una mia idea sulla religione, ma non giudico gli altri in base alle loro credenze ed ho conosciuto molte persone intelligenti che sono credenti, e molti stupidi che sono atei. Adesso però cambiamo discorso, perché se è del mio aiuto che hai bisogno non dobbiamo perdere … - ma non mi fece finire il mio discorso.

-Quindi la tua idea è che ci sono persone credenti che sono intelligenti nonostante siano credenti, e stupidi che sono stupidi nonostante siano atei.

A questo punto mi ero già innervosito abbastanza, ma mi sporsi in avanti per ascoltare meglio il suo ragionamento che non era del tutto sbagliato, ma certamente non era il momento giusto per discutere di questi temi. In realtà, aveva torto marcio e non avrebbe guadagnato nulla continuando ad insistere in quel modo.

-Insomma – continuò – le persone intelligenti sono influenzate dalla scienza e non danno molto peso alla religione, e tu hai dato per scontato che essendo del medio oriente io fossi stupido e credente.

-Ascolta, ti giuro che non ho pensato affatto che fossi uno stupido, ma solo che fossi musulmano, e ho sbagliato. Ho commesso un errore e me ne assumono la responsabilità, adesso però cerchiamo di andare avanti. Che avrei dovuto fare secondo te? Come avrei dovuto chiedertelo?

-Avresti dovuto chiedermi: sei credente?

-Va bene, ti chiedo scusa – dissi, e pensai che ero davvero dinanzi ad un furbo patentato. Cercai allora di ritrovare la concentrazione per portare a termine il questionario il più velocemente possibile. Il tempo correva veloce e i miei capi si sarebbero presto lamentati per quel mio ritardo. Di certo i miei colleghi inglesi gli avrebbero subito intimato di rispondere a quella domanda senza tanti giri di parole, mentre io non facevo altro che andargli dietro, cadendo nei suoi tranelli. Decisi di riprovare tutto da capo:

- Sei credente?- dissi, e senza aspettare che mi rispondesse feci una X nella casella corrispondente per indicare che non lo era. Finalmente potevamo mettere una pietra sopra questo piccolo incidente di percorso e andare avanti. Ma Zaid disse qualcosa:

-Si, sono musulmano.

Era fatto così, Zaid. Gli piaceva discutere e lo faceva abilmente, e non sapevi mai cosa aspettarti con lui. Era riuscito a prendersi il gioco di me per ben due volte , ma in un duello impari perché quelle griglie da riempire non erano una mia idea. Gli dissi che avrebbe dovuto approfittare del tempo che gli dedicavo, che non era infinito, e che la mia unica intenzione era quella di aiutarlo, ma lui continuava a guardarmi perplesso ed incuriosito, come in attesa di chissà quale altra fandonia da parte mia. Passammo alla domanda successiva, che riguardava le lingue parlate. Qui non potevo sbagliarmi: Zaid era iracheno ma riusciva ad esprimersi correttamente in un’altra lingua, e così gli domandai:

-Lingue parlate: arabo e inglese?

-Non parlo l’arabo. – mi disse. Non dire cazzate, pensai. Un iracheno che non parla arabo, com’è possibile? Mi sentivo confuso ma pensai che forse, in qualche villaggio del nord, nel Kurdistan per esempio, non si parlava l’arabo. Eppure, Zaid non sembrava un uomo cresciuto in qualche sperduto villaggio , ma una persona scolarizzata che parlava anche un buon inglese. Ero molto intrigato da questo personaggio che mi teneva in scacco, e memore del suo insegnamento, quasi con tono divertito, riformulai la domanda:

- Perdonami. Che lingue parli?

- Kurdo e inglese.

- Scusami, pensavo che parlassi arabo – dissi. Mi scusai per evitare di avere un altro incidente diplomatico con quest’uomo che si era rivelato così complicato e intelligente, ma allo stesso tempo mi rendevo conto che queste situazioni me le andavo anche a cercare, perché a differenza dei miei colleghi, non ero interessato all’esercizio del potere che il ruolo di funzionario pubblico mi conferiva. Certamente essi lo avrebbero liquidato alla svelta, indicandogli senza tante formalità dove potersi rivolgere per presentare un esposto, o lo avrebbero fatto uscire dall’ufficio senza perdere tanto tempo. Non era un caso che le mie sessioni fossero tanto lunghe, ma nonostante quelle riflessioni non riuscivo a rinunciare a quel mio stile così pregiudiziale. E così continuai:

-Scusami di nuovo. Credevo che in Iraq si insegnasse l’arabo nelle scuole.

- E’ vero, nelle scuole irachene si parla l’arabo.

-E tu non hai studiato in Iraq?- gli chiesi, pensando di svelare così quel mistero.

-Sì, ho studiato in Iraq, sia a scuola che all’università – Quella risposta mi intrigò, perché per la prima volta mi aveva detto più di quello che gli avevo chiesto. Non volevo ricominciare una discussione, ma non potevo fare a meno di chiarire quelle apparenti contraddizioni. E così domandai:

-E non vi insegnano in arabo?

-Si, sia a scuola che all’università – e non aggiunse altro, come se tutto fosse perfettamente logico.

- E a te non hanno insegnato in arabo? – non mi rimase che chiedergli.

- Si, ho studiato in arabo.

- E allora perché dici che non parli l’arabo? – chiesi, sempre più stupefatto.

- Perché non voglio – disse senza scomporsi.

Così era fatto Zaid.

 

 

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