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Ci rendemmo conto che le finestre del nostro ufficio erano antiproiettili il giorno in cui il mostro decise di spaccarsi la testa contro una di esse. Quella mattina, lo trovammo buttato per terra, coperto di sangue e mezzo morto, e pensammo che aveva forse litigato con qualcuno, ma mentre aspettavamo che arrivasse l’ambulanza, decidemmo di controllare le telecamere di sicurezza e ci rendemmo conto che Zamani, il mostro, era venuto davanti ai nostri uffici con un bel mattone, di quelli che si possono trovano solo nello Yorkshire. Era intenzionato a rompere i vetri delle nostre finestre. Quindi, lo aveva lanciato con tutta la sua forza, ma il mattone aveva rimbalzato come una pallina da tennis, fratturandogli il cranio e lasciandolo incosciente e coperto di sangue.
Non c’è niente di peggio, per uno spirito furibondo, che far esplodere la propria rabbia con violenza, per poi trasformarsi nell’oggetto di scherno di tutti i presenti. Il nostro supervisore, che chiamavamo Debby per far risaltare un apparente spirito democratico all’interno dell’istituzione, non seppe frenarsi dal ridere quando seppe dell’accaduto. Lei era l’unica, insieme agli amministratori, a sapere che erano state messe delle finestre antiproiettile, dato che ogni settimana qualcuno rompeva una finestra durante la notte, finche’ decisero di mettere questo tipo di protezione.
Poche settimane dopo, Zamani si presento’ nei nostri uffici. Helenka, la segretaria, arrivo’ di corsa per chiedermi di occuparmi di lui. Avevo fama di essere abile con gli utenti difficili.
-Fab, c’è un tizio difficile, potresti occupartene tu?
-Certo - dissi, senza esitare. A nessuno piaceva avere a che fare con utenti aggressivi, pericolosi o piagnucolosi. Io, invece, seguivo il criterio opposto, ovvero ritenevo che solo gli utenti difficili erano interessanti, in parte per la mia predisposizione etica nel voler aiutare i più bisognosi. Ma dall’altra parte, anche per una ragione molto egoistica: era diventato quasi un gioco per me.
Si, un gioco. Pericoloso, ma pur sempre un gioco. E perfino divertente. Questo gioco lo avevo imparato in Venezuela, dagli indomiti “llaneros”. Un giorno, infatti, mi ero ricordato dell’orgoglio col quale un coraggioso domatore disse che avrebbe montato il cavallo più selvaggio, una femmina indomita, e l’avrebbe ammansita. E fu cosi che, un giorno, dissi a me stesso: “ Con questi utenti, farò lo stesso”. E cosi, se qualcuno arrivava furioso, grondando sudore, rosso in volto, con le vene gonfie, gli occhi di fuori, l’urlo pronto ad esplodere e i denti serrati, dicevo a me stesso, in silenzio:
-Eccoti qua, caro mio…tra poco ti ammansisco io.
Poco a poco divenni esperto di qualunque tipo di furie e allucinazioni. La mia cara Helenka sapeva quanto io desiderassi avere a che fare con qualunque tipo di utente indemoniato, e per questa ragione mi chiamò immediatamente affinchè mi prendessi in carico Zamani.
-Fab, è quello che si è rotto la testa col mattone, è furioso. Ha ancora la testa bendata. Non parla, non apre bocca. Sembra che gli occhi stiano per uscirgli dalle orbite. Ti piacerà da morire -, mi diceva Helenka ridendo, perché non capiva come io potessi essere tanto folle da volermi prendere a carico uno cosi. Ma sapeva che l’altra opzione era chiamare William, Paul o Vicky, e tutti loro avrebbero finito per dirgli, secondo quanto stabilito dalle regole, che nessun tipo di aggressione o insulto sarebbe stato tollerato. Helenka sapeva bene che senza di me o Vanessa, tutto sarebbe finito con l’intervento della polizia. L’utente avrebbe dato un pugno sul tavolo, rotto qualcosa, gridato, tirato qualche sedia contro il muro, e la guardia di sicurezza sarebbe venuta con le sue cinture nere, di non so quale arte marziale, per legarlo, e dopo dieci minuti sarebbe arrivata la polizia. Per queste ragioni, e non solo, Helenka mi adorava.
- Per favore, indicagli dove si trova la porta della stanza di sicurezza e digli che lo aspetterò li.
Lui entrò dalla porta di lato, e io da quella situata dall’altro lato della stanza, nello stesso identico momento. La guardia di sicurezza lo seguiva.
-Per favore, lasciami solo con Mr Zamani- , dissi alla guardia.
- Sicuro?
- Si.
Mi sedetti di fronte alla scrivania dove si trovava il mio computer, mentre lui si sedette di fronte a me.
-Buongiorno, Mr Zamani-. Non rispose.
Mise un gomito sulla scrivania, con forza, come se volesse romperla. Poi mise l’altro gomito. Poi si piegò in avanti per appoggiare le mani sui due lati del viso, i gomiti ben saldi sulla scrivania. Io rimasi calmo, almeno all’apparenza, diciamo che se qualcuno mi avesse guardato avrebbe pensato cosi. Ma non riuscivo a rimanere calmo, perché in realtà non sono così bravo a controllare i movimenti involontari del mio corpo. A scuola ero il peggiore nella lotta, insomma, mi difendevo meglio a parole, però… non distrarti troppo Fabrizio, che a nessuno importa nulla di tutto ciò, continua col tuo racconto. Appunto, dicevo che mi resi conto che quei gomiti sul tavolo erano stati appoggiati in modo aggressivo, però chi è in cerca di grane non appoggia i gomiti sul tavolo. E cosi pensai che tutto sarebbe andato bene, ma sapevo anche che al minimo stimolo negativo quell’uomo mi sarebbe saltato addosso. Aspettai ancora qualche secondo, ma lui non rispose al mio saluto.
-Farò del mio meglio per aiutarla - gli dissi -Spero che mi darà qualche spiegazione-. Aspettai pazientemente una risposta.
E aspettai. Non mi affrettai a seguire le procedure chiaramente definite dall’organizzazione per cui lavoravo. Il primo passo, infatti, sarebbe stato domandare il nome, confermare l’identità del soggetto, chiedere un documento di identificazione e confermare anche la data di nascita, la nazionalità e cosi via. Se il mio superiore fosse stato lì con noi in quel momento, a valutare il mio operato, avrebbe già messo più di una crocetta nelle caselle corrispondenti alle “cose da migliorare”. Ovvio che a me non importava granchè di queste procedure, o per dirlo ancora meglio, me ne fregavo completamente. Questo tizio era furioso e bisognava ascoltarlo, farlo sfogare. Aspettai ancora, e aggiunsi:
-Posso aspettare, non si preoccupi, sono qui per aiutarla.
A Zamani si muoveva solo il petto, a causa della sua respirazione profonda e controllata. Aveva le braccia grandi, muscolose, con le vene marcate. Io immaginavo che l’aria esalata quando respirava fosse calda e vaporosa. Sembrava che cercasse di evitare una possibile esplosione.
E proprio per evitare un’esplosione, continuai ad aspettare per qualche altro secondo. “Forse avrà bisogno che gli scenda un po’ l’adrenalina”, pensai, cominciando a sentirmi un po’ preoccupato per la mia incolumità. Avevo chiaro in mente un piano di fuga, nell’eventualità che mi saltasse alla gola per strangolarmi, dato che avevo l’impressione che non avrei fatto in tempo a premere il bottone d’emergenza.
Nel momento in cui diedi un’occhiata alla porta, vidi attraverso la finestrella che la mia superiore mi faceva un segno, come per dire “io e te dobbiamo parlare”. Ovviamente, feci finta di nulla e tornai a prestare attenzione a Zamani, ma nonostante il tempo trascorso affinchè la sua adrenalina potesse diminuire, non successe nulla. “Che razza di idee mi vengono in mente, mica sono uno psichiatra”, e cosi, disarmato, dissi:
-Sono qui per aiutarla - e, dopo una breve pausa, aggiunsi: - Ma per aiutarla, ho bisogno di sapere cosa le sta succedendo.
Lasciai passare qualche secondo, che a me parvero ore, e probabilmente anche a lui; ma sapevo che questa frase doveva penetrare nel suo subconscio, che era compromesso. Compromesso, si, però sufficiente da averlo spinto fin li, nel posto giusto dove chiedere aiuto. Da bravo venezuelano, so bene come reagire nei momenti di estrema tensione, poiché tutti noi abbiamo ricevuto una sorta di “allenamento” durante le numerosi detenzioni da parte della terribile Guardia Nazionale o qualche altra nuova polizia che la dittatura creò e che io, per fortuna, non ebbi l’onore di conoscere. Insomma, cercai di mantenere il silenzio il più a lungo possibile, affinchè fosse l’imbarazzo a farlo parlare.
Ma colui che cominciò a sentirsi a disagio fui io, quando vidi la mia superiore che di nuovo mi faceva un gesto che ancora una volta finsi di non capire. In quel momento, pensai che forse il problema era che nessuno dei due fosse di madrelingua inglese. Cosi, in una versione un po’ “tarzanizzata” dell’inglese, ripetei:
-Per aiutare, ho bisogno di sapere. Se so cosa succede, so come aiutare.
Niente. Continuava a guardare il tavolo con i gomiti piantati e la testa tra le mani, nessun movimento corporeo, solo il suo respiro entrava ed usciva dalle narici, pesante, profondo e sonoro. Non era facile immaginare ciò che sentiva. Faceva paura, non pena, per questo continuavo a recitare la parte del domatore.
Non sapevo ancora che tutta quella rabbia l’aveva accumulata sin da bambino, né tantomeno che non si trattava di un bambino traumatizzato, ma di un bambino viziato della classe alta iraniana, che aveva assorbito la sofisticata cultura persiana, ed anche studiato all’estero. Aveva avuto un’infanzia tranquilla e privilegiata a Teheràn, e non aveva avuto molto a che fare con la rivoluzione islamica, poiché viveva nel mondo protetto della sua casa, assistito dai domestici e allietato dalle frequenti visite di familiari e amici dei suoi genitori. Andavano spesso in Turchia, a visitare le spiagge e i mercati di Instambul, città che amava più di Parigi o Roma. Ma a Zamani non importava molto delle spiagge turche, perché preferiva giocare in piscina a casa sua, con qualche invitato scelto con cura dai suoi genitori. Chi avrebbe mai immaginato che quel bambino si sarebbe trasformato in quel mostro temuto da tutti.
-Si prenda del tempo, Sig. Zamani. Anche io sono uno straniero qui e sono diventato molto aggressivo in questo paese. Non tutti ci capiscono, lo so bene - e decisi di aspettare ancora qualche secondo. Forse furono minuti. Ore, nella mia percezione distorta del tempo, mentre cercavo di capire a cosa stesse pensando, senza poter decifrare l’immobilità del suo corpo. Potei solo immaginare come, la notte precedente all’incidente del mattone, Zamani avesse attraversato il nord della città di Leeds, si fosse diretto al centro, avesse preso un enorme mattone da un cantiere nei paraggi e avesse poi camminato verso la zona sud della città. Era giunto presso i nostri uffici a sfogare tutta la rabbia che aveva accumulato nei confronti nostri, dell’Home Office, delle Nazioni Unite, di Dio e della vita. Tutto ciò, attraverso un mattone vendicativo contro la finestra sbagliata, cosi che, come sempre era successo sia in questo paese che nel nativo Iran, il fato si era scagliato contro di lui, e la finestra aveva respinto il mattone. Povero Zamani.
E povero me, che quell’uomo continuava a stare in silenzio. E povero me, che la mia superiore scomparve e poco dopo il telefono interno cominciò a squillare, ed io sapevo perché. Ovviamente, era Debby. Lo staccai. Ancora una volta, la mia massima attenzione era rivolta a Zamani.
-Non so cosa le sia successo, ma anche a me sono successe tante cose in questo paese, ed è per questo che ho deciso di lavorare qui, per aiutare la gente come lei, come me.
Ancora non sapevo quale fosse il suo problema, ma si poteva facilmente indovinare che era furibondo, per cui il suo problema doveva essere grave, o almeno dal suo punto di vista. Da parte mia, dovevo fargli capire che esisteva un loro e un noi, un tu-e-io che diventava noi. Forse era ingiusto nei confronti dei miei colleghi, ma era un modo per rompere un muro. Eppure, nulla. Continuava a stare seduto cosi, immobile. Potevo ancora udire il suo respiro. I suoi gomiti erano ancora piantati sul tavolo. Ancora non avevo ricevuto nessun segno da parte sua che mi stesse ascoltando, che ci fosse un minimo di empatia tra di noi. E come potevo sapere che la sua famiglia era caduta in disgrazia a causa dell’appartenenza politica di suo padre, e che la rivoluzione li aveva infine spogliati di tutti i loro privilegi. L’ultimo che persero fu quello della madre di poter indossare il velo sulla testa a metà, in aperta discordanza con le nuove regole imposte dagli Ayatollah e rigorosamente sostenute dai guardiani della morale. Ancora abituato ai privilegi aristocratici in una società ineguale, fu costretto, ancora bambino, a vedere sua madre ammazzata a sassate, a seguito di una brutale condanna. Con ogni pietra, giungevano gli insulti, ad aggiungere umiliazione al dolore. Ogni pietra che colpiva sua madre, feriva anche lui, con un dolore ardente che mai più sarebbe andato via. Così la vide morire, non solo col dolore delle pietre che le cadevano addosso e l’umiliazione degli insulti, ma anche il dispiacere di sapere che suo figlio era presente. Che morte!
Continuavo ad interrogarmi su come poter rompere il ghiaccio. Non potevo lasciarlo andare senza risolvere il suo problema o avrebbe potuto ammazzare qualcuno, o sé stesso, o tirare un altro mattone contro una finestra, preferibilmente non le nostre. La mia superiore apparve nuovamente alla finestrella, con quell’espressione che diceva poi parliamo, ho qualcosa da dirti. Le feci un gesto per allontanarla, un gesto per dirle che aspettasse, nella speranza che qualcosa di buono accadesse … Aspettai ancora, e poi dissi:
-Senti, Zamani, noi non siamo dell’Home Office. L’Home Office sbaglia spesso, mentre noi possiamo aiutarti.
Aspettai ancora. Niente.
-Zamani, ascolta, io ho bisogno di aiutarti. Non lo faccio per il Refugee Council, lo faccio per me stesso. Per trovare pace. Sono qui per aiutare gente come te, però come posso aiutarti se non mi spieghi il tuo problema?
Ad un tratto, sollevò lo sguardo. Mi guardò e fece un gesto come per dire “si”. Aspettai e pensai:” Se adesso mi guarda, non riuscirà più a rimanere in silenzio”. Invece rimase ancora in silenzio, ed io non ebbi altra scelta se non sostenere il suo sguardo per qualche secondo, pero è molto intenso quando abbiamo a disposizione un solo mezzo per comprendere qualcuno. Era uno sguardo dubbioso, che domandava: sarai proprio tu colui che potrà capirmi? Era uno sguardo che diceva non ne posso più.
Finchè, ad un tratto, tirò fuori dalle tasche una montagna di carte, documenti e quant’altro. Erano accartocciati e spiegazzati, con macchie di caffè. Li afferrai, e vidi che erano tutte notificazioni dell’Home Office: sfratto e “liability to detention”, ossia il rischio di venir arrestato senza motivazione, ma solo per aver chiesto asilo, poiche’ chiedere asilo e’ un diritto, ma al richiederlo si rischia di venire arrestati, proprio così, quasi come Chavez, che andava in televisione a minacciare il popolo di condanne e arresti. Qui c’è più civiltà, dicono, ci sono giudici che indossano parrucche bianche e che inviano lettere con nome, cognome e indirizzo, senza mettere in discussione la legalità di arrestare qualcuno che non ha commesso nessun reato. Altro che civilizzati. Direi piuttosto, bestie senza cuore. Ricevere una lettera di questo tipo, dove si comunica che la vostra richiesta di asilo verrà presa in considerazione e poi rimanere in un limbo per mesi, se non anni, non è certo piacevole. Anni di attesa, dove dal limbo si può cadere all’inferno e come se non bastasse, si rischia anche di essere arrestati, senza alcun motivo se non una maledetta sfortuna. Questo tipo di lettera, quella che diceva “liability to detention”, la ricevevano tutti i richiedenti asilo. Zamani era uno dei tanti, niente di speciale. Eppure era li, davanti a me, a gridare tutte le ingiuste del mondo.
Io sono venezuelano come Carlo, Sofia e Arturo, il mio compare scienziato reinventatosi imprenditore; però ho qualcosa in più rispetto a loro, di cui non ho alcun merito, ed è che nelle mie vene scorre sangue italiano, perché i miei genitori erano italiani. Quindi, a tutti loro è toccato ricevere questa lettera, ma non a me. Così stabilisce la costituzione italiana, art. 4. Se venissi arrestato, sarebbe per omicidio, per quanto stupido possa sembrare; o magari per aver scritto questi racconti, perchè offendono uno di questi giudici con la parrucca bianca che sembrano usciti da una stampa del XIX secolo. Adesso, con l’uscita dall’Unione Europea, hanno provato tutti un brivido alla schiena perché i loro diritti non sono più al sicuro. Guarda Zamani, lui rischia l’arresto e la deportazione all’inferno, non alle torture della Dolce Vita o agli orrori di Parigi.
Continuai ad analizzare quelle carte. Vi erano articoli su sua madre e suo padre quando furono arrestati. Lessi una petizione di Amnesty International per suo padre. Lessi di alcune vicende che avevano fatto scalpore anni prima. Lessi anche delle testimonianze di alcuni parenti dei suoi genitori, in Canada e in Germania. E finalmente capii la causa del suo stato di alienazione. Su uno dei fogli trovai scritto: “La sua richiesta di asilo è stata bocciata”.
Poche righe dopo, continuava cosi: “Riteniamo che non ci siano ragioni sostanziali per una richiesta di asilo in quanto le testimonianze fornite sulle vicissitudini familiari non costituiscono una ragione sufficiente a far temere per la sua incolumità”,che in effetti sembrerebbe quasi corretto, se ad analizzare il caso fosse stato un computer programmato da un robot extraterrestre. Come si fa a ritenere che la sua preoccupazione è infondata solo perché ancora non l’hanno ammazzato e da ciò concludere che il rischio non sussiste? Che modo di ragionare è questo? Disgraziati!
Bisogna aver mangiato tanti ravioli in scatola per ragionare in questo modo. O sarà l’effetto dell’aceto sulle patatine fritte? Continuavo ad analizzare le carte ma non era facile riordinare quel mucchio di fogli riguardanti la sua richiesta d’asilo, perché erano tutti accartocciati e sciolti, pieni di minuscole parole scritte nell’alfabeto persiano, alcune sottolineate, altre illeggibili; alcuni pezzi erano strappati e riattaccati con il nastro adesivo; in altri punti si potevano notare i segni delle mani; ovunque vi erano macchie, segni e strappi che facevano pensare che quei fogli erano stati dappertutto, per terra, nella spazzatura, su tavoli e pavimenti. Quei fogli erano stati calpestati, insultati, ci avevano sputato sopra. Non credo che quei fogli sapessero a cosa sarebbero andati incontro, quando uscirono dalla fabbrica, quasi a domandarsi ma che ci sarà scritto su di noi di così grave da far impazzire cosi tanto questo povero diavolo?
-Sei venuto per risolvere questo problema, immagino – gli dissi, mostrandogli il foglio della sua richiesta d’asilo negata.
Zamani finalmente si mosse. Mi guardò negli occhi, e il suo sguardo diceva meno male che capisci, finalmente qualcuno che capisce qualcosa. Ma ecco che proprio sul più bello mi accorsi che Debby era apparsa nuovamente alla finestrella. Questa volta però, rompendo il protocollo e le solite buone maniere, aprì la porta.
-Perdonami Fabrizio, ho bisogno di parlarti un minuto.
Guardai Zamani, nella speranza che avesse la sfrontatezza di alzarsi e darle un ceffone, che per me sarebbe stata la giusta punizione per aver interrotto una sessione di questa rilevanza. Purtroppo Zamani si rivelò più ragionevole di Debby, e non le ruppe i denti come si sarebbe meritata, né quei denti da dentista, nè quella mandibola un po’ sbilenca. Guardai nuovamente la mia superiore e le dissi:
-Ma certo Debby, dammi un minuto e vengo – ma sapevo che in realtà non avevo la minima intenzione di interrompere la mia seduta con Zamani.
- Sarebbe meglio se venissi subito – mi rispose, con un’espressione in volto che diceva ancora una volta stai facendo come ti pare.
Zamani mi guardò, e in qualche modo si accorse dell’espressione sul mio volto che diceva questa stronza non capisce un cazzo.
-Inglesi- disse.
Bingo! Questo Zamani ha più cervello della mia superiore, com’era ovvio. Gli feci un cenno e gli dissi di aspettare un attimo, poi andai verso la porta e uscii dalla stanza. Con la coda dell’occhio, vidi che Zamani scuoteva la testa mentre ripeteva:
-Inglesi-
Una volta fuori dalla stanza, Debby cominciò il suo sermone, senza avermi prima risparmiato uno dei suoi criptici sorrisi di circostanza, con quella sua dentatura da dentista. Cominciò:
-Fabrizio, come ben sai esistono delle procedure, e non si fanno eccezioni. Abbiamo tantissimi utenti che stanno aspettando, quindi ti devi sbrigare.
-Non preoccuparti. Sarò velocissimo.- risposi, con la consapevolezza che non era vero, e che mi stavo mettendo nei guai.
- E quale sarebbe il suo problema?
-Gli hanno negato l’asilo.
-Ah, niente di complicato – disse, con aria saccente. – Indirizzalo all’ufficio migrazione per il rientro nel suo paese d’origine, e assicurati che compili la sez. 4 – . La sezione 4 indicava una richiesta di appoggio economico con buoni spesa per comprare da mangiare, e un alloggio temporaneo, nell’attesa che tutto fosse pronto per il suo rientro in patria.
-Ah, la sezione 4. Che bella idea- risposi, consapevole che era una idea del cavolo, e soprattutto non era ciò che voleva Zamani, anche se a nessuno importava. Senza considerare che, se gli avessi detto che la soluzione per lui era fare le valigie e tornarsene in Iran, e magari cercasi qualche amico tra gli Ayatollah, l’unico che avrebbero potuto impacchettare sarebbero stati i resti della mia testa, il cranio da una parte e il cervello dall’altra, per poi metterli dentro una bara e spedirla direttamente in Venezuela.
-Mi raccomando, non perdere tempo – mi disse Debby ancora una volta, in completa dissonanza con i miei pensieri e con ciò che avrei voluto dirle: ma certo, stronza.
Stavo per aprire la porta per rientrare nella stanza dove Zamani mi aspettava, quando Debby aggiunse:
-E ricordati che devi seguire le procedure, Fabrizio. Devi avere una guardia di sicurezza accanto, perché si tratta di una persona pericolosa e difficile da trattare – e poi, mi diede una pacca sulla spalla e mi strizzò l’occhio, come per dire che bambino indisciplinato che sei! Ti dobbiamo sempre correggere.
-Si è già calmato, non ti preoccupare – dissi – e comunque non credo che sia una persona intrattabile – aggiunsi, senza specificare che, ad essere intransigente, era stata lei, col suo voler interrompere a tutti i costi la mia sessione con Zamani per dirmi che mi sbrigassi, mentre lui, che rischiava la vita e aveva visto ammazzare sua madre, non aveva battuto ciglio. E improvvisamente, mi accorsi di essere rimasto solo con me stesso, a divagare su come Debby lo avesse giudicato come una persona “difficile”, intransigente, appunto. A volte mi succede di soffermarmi più a lungo del solito su ciò che la gente dice, soprattutto quando si tratta di sciocchezze a cui non riesco a controbattere. E mi ripetevo: e tu, imbecille, sei davvero cosi tollerante e aperta al dialogo? Hai interrotto la nostra seduta più di una volta, però giudichi Zamani un intransigente. Ma allora, tu cosa faresti se fosse la tua bicicletta di merda a forare? Ma và al diavolo.
-Ne sei proprio sicuro? – mi domandò Debby.
- Di cosa? – risposi, ancora un po’ sovrappensiero.
-Secondo te? Che si è davvero calmato.
-Ah, si. Sono sicuro – dissi, senza esserlo minimamente, ma dovevo evitare di avere una guardia di sicurezza lì con me, ad ogni costo. Questo avrebbe distrutto l’atmosfera che ero riuscito a creare.
Finalmente, tornai nella stanza dove Zamani mi aspettava. Che sollievo. Mi misi seduto e respirai. Mi accorsi di quanto mi erano mancate quelle vene gonfie e quei gomiti piantati sulla scrivania. Sicuramente meglio di quella matta con la sua inutile ossessione per le istituzioni, che voleva obbligarmi a comportarmi da ipocrita.
-Che voleva quella donna?
-Niente, non ti preoccupare. Abbiamo un problema con gli allarmi, niente di grave-. Stavo mentendo. Come avrei potuto dirgli che alla mia superiore non piace che vengano risolti i problemi dei nostri utenti?
Afferrai il plico di fogli che costituivano le risposte alle sue varie richieste di asilo. Avevo già intuito, dato che non era infrequente, che il problema era che il suo avvocato non aveva intenzione di continuare a seguire il suo caso, mentre Zamani avrebbe voluto il contrario. La logica seguita in questo paese è molto semplice: gli avvocati sono pagati dall’Home Office, ma per ricevere lo stipendio devono vincere almeno il 50% dei casi in giudizio d’appello. Questo per dirla all’inglese, mentre per dirla alla venezuelana, si tratta di una specie di scommessa tra l’Home Office e l’avvocato, dove l’Home Office dice all’avvocato:
-Senta, sig. Avvocato, qui ce n’è per entrambi. Se riesci a vincere almeno metà delle volte, ti pago per completo; se perdi, si annulla il contratto, ti cerchi un altro lavoro e magari ti metti a scrivere storielle insieme a Fabrizio, che nessuno legge, o a cantare “rancheras” nella metro di Londra. Ci siamo capiti?
Va bene, dice l’avvocato che deve pagare il mutuo, oltre che le cure dentali per i suoi figli.
L’idea della scommessa non è del tutto sbagliata. Ha permesso al capitalismo inglese di sopravvivere a tutti i suoi errori, ma non scordiamoci che siamo in Inghilterra, e questo non dovremmo mai dimenticarlo. C’è sempre una parolina piccolissima nascosta da qualche parte, ed è l’unica cosa che conta davvero. E cosi l’Home Office, per pagare la scommessa, aggiunge, per dirlo sempre alla venezuelana:
-Allora, buono a nulla, mica ti pago per tutto il tuo lavoro, solo per una quantità minima di ore, chiaro? So che non sarà una passeggiata, ma se cominci a fare le tue ricerche e a chiamare gli interpreti e via dicendo, non ti rimborserò nulla, neanche il lusso di capire veramente cosa mai vorrà dire il tuo assistito attraverso l’aiuto di qualcuno che parli la sua lingua, neanche fossi scemo, senza considerare che, se decidi di metterti ad indagare la ragione esatta per cui tutto ciò che abbiamo creato è una menzogna, allora puoi anche alzare i tacchi e andartene a mani vuote. Funziona cosi: metà per me, metà per te, e con questa porcheria stiamo bene entrambi.
Gli avvocati sono pagati solo per alcune ore. Se possono fare un lavoro di copia-incolla da qualche altro caso, lo ritengono una fortuna. E cosi, finiscono per voler galleggiare nei soldi facili, più di quanto vogliano salvare vite umane, loro malgrado. E cosi, avendo constatato come stessero le cose, chiesi a Zamani:
-Quindi, vorresti che ti cercassimo un avvocato, o preferisci che parliamo con il tuo?
-Ma fammi il favore- mi disse, come se la risposta fosse ovvia.
-Va bene, non ti preoccupare. Per prima cosa, chiameremo il tuo avvocato- che andava bene per qualsiasi cosa che lui avesse considerato ovvia.
Chiamai il suo avvocato. Dopo le solite formalità, la segretaria mi chiese:
-Scusi, di che nazionalità è il vostro assistito?
-Iraniano
-Ah no, allora non possiamo fare niente.
-E perché?
-Cosi mi hanno detto. Niente iraniani.
-Capisco- mentii. Che discriminazione bella e buona, che conferma che in questo paese, se non ti fottono in qualche modo, allora ti fottono proprio in questo modo. Non si analizzano le richieste di asilo per chi ne ha diritto, ma si discrimina per la nazionalità.
-Posso aiutarla in qualche altro modo? – aggiunse poi, col quel tipico tono di voce che significava non disturbi più con questo tema e stia pronto che adesso le attacco il telefono in faccia, senza neanche darle la possibilità di cambiare discorso. Tipico.
Ho capito, niente iraniani. Però Zamani era stato loro cliente per anni, e all’improvviso lo abbandonavano senza nessun motivo.
-Un avvocato ha controllato il caso e ha ricevuto la sua lettera di richiesta d’asilo, ma purtroppo il caso è debole, manca di sufficienti prove.
E lei come fa a saperlo, se è solo una segretaria senza nessun tipo di formazione legale? Avrei voluto chiederle, ma non valeva la pena. Già da tempo conoscevo la risposta, ed era semplice. Se il cliente è iracheno, la richiesta di asilo viene accettata; se è iraniano, no. In Germania funziona al contrario.
-E lei come fa a sapere che l’avvocato ha letto tutti i documenti se non sa neanche di chi le sto parlando?- le chiesi.
-Prego, mi dica il nome del suo assistito.
- Mr. Nonloso Zamani
-Data di nascita? - E cosi via.
-Allora, come le ho detto, qui risulta che l’avvocato ha ricevuto tutta la documentazione. Purtroppo il suo caso non è forte, quindi per noi è chiuso. Mi spiace.
-I am sorry- ripete’ Zamani. Dal suo tono di voce, capii che anche lui si scherniva di quanto spesso gli inglesi dicessero “mi dispiace”, senza in realtà provare nulla, soprattutto quando il tono di voce esprime esattamente il contrario. Da parte mia, avrei voluto gridargli che erano dei morti di fame, a cui non importava nulla della giustizia, ma la mia rabbia mi avrebbe portato solo a ricevere una sanzione disciplinare, anche se magari ne sarebbe valsa la pena, almeno Zamani avrebbe saputo che ero dalla sua parte.
-Gli inglesi sono cosi, che vuoi farci. Posso immaginare ciò che ti ha detto- disse quando terminai la telefonata, indovinando correttamente le risposte della segretaria.
Cominciai a rendermi conto che Zamani conosceva il paese in cui abitavamo più di quello che sembrava. Da un lato, volevo dirgli che ci sono anche inglesi che non sono così, per esempio la mia amica Sue. Però la tentazione di urlare contro quella segretaria per fargli capire che ero dalla sua parte, era ancora più grande. Però a questo punto ritenevo che lui capisse che non avevo atra scelta se non mantenere un atteggiamento professionale, anche se all’apparenza indifferente. Appena riattaccai, Zamani disse:
-Allora, è arrivato il momento di cercare un altro avvocato, uno che creda nella giustizia.
E improvvisamente ebbi la conferma di trovarmi al cospetto di una persona molto intelligente, e non un animale selvaggio, nonostante avesse cercato di rompere le nostre finestre anti proiettile. Non a caso, quando poco prima gli avevo chiesto se dovevo chiamare il suo avvocato o cercarne un altro, mi aveva risposto semplicemente “Ma fammi il favore”. Significava che lui già conosceva la risposta. Che sollievo.
Allora mi misi a cercare il numero di un avvocato iraniano, di cultura italiana, che aveva studiato con mio padre nella stessa università, La Sapienza. Volevo parlargli di questo avvocato, con cui amavo chiacchierare e che ricambiava l’opportunità di poter parlare con me in italiano, prendendosi a carico più casi di richiedenti asilo iraniani del normale. Purtroppo, a volte, la fortuna scarseggia, e proprio in quel momento Debby fece nuovamente capolino dalla finestrella. Di nuovo con quelle smorfie che volevano dire ti devo parlare, accompagnate da movimenti circolare della mano, tipo robot.
-C’è di nuovo la tua superiore alla finestra- disse Zamani, sferrando un pugno sul tavolo.
-Posso chiamare un avvocato che credo possa aiutarti- dissi.
-Preferirei se chiamassi quest’altro - , e tirò fuori un bigliettino da visita. Che coincidenza! Erano la stessa persona. In realtà, non c’erano molti avvocati iraniani che si prendessero a cuore questi casi, soprattutto in questa regione. Cominciai a comporre il numero di telefono, quando Debby entrò nella stanza, accompagnata dalla guardia di sicurezza.
-Tutto bene?
-Si, tutto bene.
-Potresti venire un attimo?
-Certo, appena finisco questa telefonata.
-Puoi chiamare più tardi.
-No, non posso. Stanno cercando dei documenti di cui ho bisogno e mi hanno detto di aspettare in linea- dissi mentendo, mentre tenevo il telefono ben attaccato all’orecchio, in modo che non si potesse sentire il suono della linea occupata.
-Ok, ti aspetto fuori- rispose, uscendo.
-Secondo te, cosa vuole? – chiese Zamani appena la porta si chiuse.
-Niente, vuole che mi sbrighi. E poi si sarà spaventata per il rumore di quel colpo sul tavolo. Avrà pensato che mi volevi uccidere- dissi, scherzando.
-Como posso aiutarti?- mi chiese.
- Riempi questa griglia della sez.4- e gliene diedi una.
Dato che l’avvocato non aveva ancora risposto e la linea era sempre occupata, uscii a parlare con Debby. Le dissi che, dopo innumerevoli domande e dubbi, Zamani aveva deciso finalmente di fare uso della sez.4. La donna si congratulò con me e io potei tornare dal mio assistito.
-Abbiamo guadagnato un po’ di tempo - gli comunicai. Mi misi a comporre nuovamente il numero di telefono, e improvvisamente mi resi conto di una cosa assurda. Com’era possibile che quell’uomo, pur avendo quel contatto, non avesse provato a chiamare l’avvocato o ad andare nei suoi uffici? Lo reputavo intelligente, per niente timido, che andava in giro come se fosse Hulk o un qualche super eroe pieno di muscoli. C’era qualcosa che non quadrava.
-Ci vuole parlare lei con la segretaria?- gli chiesi.
-No!!! Per carità! Il problema è proprio quello. La segretaria non mi lascia parlare con l’avvocato.
Improvvisamente mi ricordai che mio padre diceva sempre che avere un ministro come amico era utile, ma non serviva a nulla se non si era in amicizia anche con la sua segretaria. Ed ecco che Zamani mi forniva la prova che l’intuizione sociologica di mio padre era corretta. Finalmente la famosa segretaria, detentrice delle chiavi del potere, rispose al telefono, e poco dopo riuscii a parlare con Izadi, l’avvocato iraniano. Chiacchierammo del più e del meno per un po’, senza entrare nel merito della mia chiamata. Semplicemente, l’avvocato amava trastullarsi con l’italiano, ma quando finalmente feci il nome di Zamani, ricevetti una risposta inaspettata.
-Sono in partenza, mi trasferisco in Canada. Ho dei familiari lì, e poi sono stufo di avere a che fare con tutti questi casini qui.
-Sono contento per te, Izadi. –dissi - Ho molti amici in Canada che si trovano molto bene lì. In bocca al lupo.
-Per cosa mi chiamavi?
-Volevo mandarti un cliente iraniano. Un tipico esempio di avvocati che all’inizio fingono di rappresentare il cliente, per poi lavarsene le mani col pretesto che il caso è troppo debole.
-Purtroppo non posso seguire questo caso, mi dispiace. Partirò a breve.
-Capisco. Però non potresti affidare il caso ad uno dei tuoi colleghi?
-Impossibile. Gli ho già lasciato moltissimi casi difficili, non voglio creare troppa confusione per nessuno.
-Capisco. Sarà per un’altra volta. Di nuovo, in bocca al lupo.
Adesso giungeva il momento di parlare con Zamani. Cercai di farmi forza: come faccio a dirgli che l’unico avvocato su cui potevamo contare, iraniano come lui e in grado di parlare la sua stessa lingua, sta per andarsene a vivere all’estero? Ero in procinto di cominciare a parlare con lui, quando Debby apparve di nuovo.
-Fabrizio, possiamo parlare un attimo?
-Va bene. Lasciami finire con l’utente e vengo subito da te.
Debby se ne andò, e a quel punto Zamani venne in mio aiuto, nella maniera più insospettabile.
-Senti, Fabrizio. Dì alla tua supervisore che mi voglio ammazzare - . Per un attimo pensai che l’uomo aveva sentito la mia conversazione con l’avvocato, ma in realtà non era cosi. Stava semplicemente cercando di darmi una mano.
-Come? Ti vuoi suicidare?
-Non dire sciocchezze. Cerca di capire. Se le dici che ti ho detto che mi voglio ammazzare, guadagniamo del tempo. Ti toccherà seguire un protocollo differente. Tu annota tutto, e nel frattempo continuiamo a parlare con l’avvocato.
- Va bene, mi sembra una buona idea- gli dissi, ammirando la sua intelligenza.
Nonostante fosse una buona idea, c’era davvero il rischio che Zamani potesse ammazzarsi, soprattutto quando avesse saputo che l’avvocato a cui poteva rivolgersi, stava per andarsene dal paese. Era davvero ironico vedere come il “mostro Zamani” mi stesse aiutando a tenere a bada la personificazione della burocrazia, suggerendomi un’idea alla quale probabilmente avrebbe pensato, quando gli avessi detto ciò che dovevo dirgli. Con mille pensieri per la testa, uscii a parlare con Debby.
-Hey Debby, abbiamo una situazione un po’ delicata.
-Fabrizio, devi finire con questo cliente. Cerca di essere professionale. Non può essere che ci voglia tanto tempo a riempire una griglia della sez. 4. So che sei una brava persona, ma devi mantenere le distanze. Ancora una volta, mi guardava con quella faccia da Fabrizio, sei un bambino molto indisciplinato e noi ti dobbiamo correggere.
- Debby, mi ha appena detto che vuole ammazzarsi.
-Bhè, sai cosa devi dire in questi casi, assicurati di riferirlo ad un medico affinchè possano prendersi cura della sua salute mentale. E non dimenticarti di prendere appunti con attenzione -
-Certamente. – dissi, scoraggiato. E tornai da Zamani.
-Ti sei già liberato di quel mostro?- mi chiese.
-Almeno per un po’. Mi ha detto che dovrei indirizzarti ai servizi medici specializzati e allertare le altre organizzazioni sulle tue intenzioni.
- Ti sei dimenticato di dirmi che dovrai rompere il segreto professionale per poter proteggere la mia vita.
-Giusto.
A quel punto, gli spiegai cosa mi avesse detto l’avvocato. Poveraccio. Non potemmo far altro che seguire il protocollo. Lo indirizzai ai medici competenti e rimanemmo d’accordo che sarebbe tornato, in modo che io potessi riferirlo ad altri avvocati a Londra. Dopodichè, Zamani se ne andò, con aria apparentemente tranquilla. Mi sentivo felice, perché col suo aiuto ero riuscito a tenere a bada Debby, e non era stato affatto facile.
Poche settimane dopo, Debby mi chiamò nel suo ufficio. Sul volto aveva un’espressione indecifrabile. Mi disse:
-Ho due notizie, una buona e una cattiva. Cominciamo con quella cattiva.
-Ok
-Zamani si è ucciso.
-E la buona?
-C’è stata un’investigazione a tuo carico. Hai seguito correttamente il protocollo. Lo hai riferito ai medici, hai allertato le autorità competenti, hai preso nota della legge di protezione dei dati e i tuoi appunti sono perfetti. Sei stato molto professionale.
- Grazie – risposi.
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