Versione elettronica della 'raccolta di racconti del bloody migrant' é disponibile su Kindle
Dopo l’uccisione di Charlotte, mi toccò risolvere il problema di cosa farne del cadavere. Ovviamente, non potevo lasciarlo andare in decomposizione, perché l’odore avrebbe allarmato i vicini e chissà quali sarebbero state le conseguenze. Proprio in quel momento, mentre scavavo la fossa nel cuore della notte, apparve mia figlia Fabiana, spaventata a morte. Non c’era da stupirsi.
-Ma papà, che stai facendo?
- Quello che vedi: una tomba per questo cazzo di ratto
inglese. Che ci vuoi fare, gli ho dovuto fracassare il cranio e gli è pure
fuoriuscito il cervello. Cosi impara a votare a favore della Brexit.
-Oddio – disse stupefatta. E non si dimentichi che
“oddio” non è un’ invocazione frequente nella mia famiglia, ormai da generazioni.
Mia figlia è atea come me, sua madre ha perso la fede un po’ alla volta, e
anche i miei genitori, e credo due dei miei nonni, per non parlare di un
bisnonno che venne scomunicato, erano tutti atei.
-Oddio – ripetè, guardando quel cadavere.
-Tutti i nodi vengono al pettine. Era giunta l’ora
anche per questo schifoso ratto inglese. – dissi.
- E l’hai ucciso così, a sangue freddo? – la sua voce
era incredula – e sei pure diventato razzista.
- Si chiamava Charlotte, e gli ho dato un bel colpo in
testa – le dissi, solo per darle fastidio.
Ci sarebbero cose più importanti da raccontare in
questa storia dell’uccisione di un topo, però mentre mi appresto a scavare una
fossa nel giardino per seppellire questo cadavere, faccio mille pensieri e mi
rendo conto che è la seconda volta nel giro di poche settimane che mia figlia
mi accusa di razzismo e questa cosa mi fa arrabbiare, e mi domando se questo
mio razzismo sia uguale a quello degli inglesi caucasici, dato che si manifesta
in una società nella quale io mi trovo dal lato degli oppressi. Insomma, una
cosa è essere razzisti quando fai parte della classe dominante e quindi stai
praticamente giustificando quella struttura di potere, un’altra è essere un
razzista quando sei segregato e sfruttato da quella stessa società, penso. E ci
penso sù ancora un po’, e giungo alla conclusione che il razzismo è pur sempre
razzismo, ed essere una vittima non è una giustificazione valida per fare la
vittima, il resto non conta. Anche alcuni stupratori sono stati vittime di
abusi sessuali da piccoli, lo sanno tutti, però molte di queste vittime
diventano resilienti e finiscono per essere delle brave persone, quindi il
razzismo vendicativo non vale, non va bene, è sbagliato. Questi erano i miei
pensieri, mentre rapidamente finivo di scavare la fossa.
Arrivò una folata di vento freddo, maledetto clima
inglese, quindi mi affrettai a buttare quel corpo senza vita nel buco che avevo
scavato, senza neanche preoccuparmi di tapparlo. Entrai in casa e mi rimisi sul
divano, il mio luogo di riflessione preferito. Sdraiato a quel modo, con la
testa appoggiata su un bracciolo e i piedi sull’altro, che è come ci si
dovrebbe posizionare per riflettere dopo aver compiuto un qualche gesto
trascendentale, soprattutto dopo essersi sbarazzati di un nemico, per quanto
piccolo ed insignificante, cominciai a pensare a tutta la questione. Cercai di
ricordare quando fosse cominciata questa storia del razzismo, perché non era
una cosa successa così, all’improvviso. Era accaduto un po’ alla volta, ma
senza dubbio, il giorno dei risultati del referendum per votare a favore o
contro l’uscita dall’Europa, ovvero la famosa Brexit, era stato un momento cruciale. Quel giorno uscii di casa
diretto verso il centro della città, e non potevo trattenermi dal guardare
fissamente ogni anziano che mi passava davanti: se era grasso e caucasico,
aveva sicuramente votato a favore della Brexit. Questo era a mio avviso lo
stereotipo di coloro che volevano lasciare l’Europa: vecchi, grassi e
diabetici. E per giunta ignoranti, pensavo, ma questo mio paradigma andò
modificandosi un po’ alla volta, fino ad includere qualunque inglese caucasico
che incontrassi. E che sia chiaro a tutti che per me questi sostenitori della
Brexit non sono una categoria sociale soggetta a verifiche empiriche,
nient’affatto. Per me, si tratta di creature che hanno votato in quel modo
affinchè io me ne vada dal loro paese e smetta di infastidirli con la mia
presenza, non possa più lavorare lì né guadagnare, tantomeno essere scelto per
i lavori che spettano a loro e neanche possa più mettermi in fila dal medico,
al supermercato o al semaforo. Insomma, la Brexit divenne per me la negazione
del mio diritto ad esistere e, come conseguenza, trasformò i miei sentimenti di
fallimento e frustrazione personali in rifiuto e odio. E così, con questi
pensieri, continuai a crogiolarmi sul divano, e cominciai a ricordare molte
altre cose.
Anni prima, quando avevo un buon lavoro e tutti i
giorni andavo in ufficio a Leeds, mi capitava sempre, soprattutto quando
arrivavo alla stazione dei treni, di leggere i titoli in prima pagina dei giornali, in particolare del Daily Mail,
un periodico che non ha mai fatto nulla per mascherare la sua avversione per
gli stranieri, tranne, a suo tempo, per Hitler e Mussolini, almeno finchè non
dichiararono guerra alla Francia e all’Inghilterra. Leggevo i titoli di questo
giornale con la freddezza del sociologo, non con la passione dello sfruttato,
come un biologo osserverebbe la lotta tra un ragno ed una mosca, niente di più.
Un giorno dichiarava che tutti gli immigrati erano degli scansafatiche che
vivevano grazie all’assistenza sociale, e il giorno dopo scriveva che erano
tutti indaffarati a rubare il lavoro agli autoctoni locali. Il messaggio era
chiaro: essere un immigrato è sbagliato di per sè, che si lavori o meno. Notavo
la dissonanza di queste convinzioni, ma per me, all’epoca, il Daily Mail non
era altro che una curiosità antropologica. Ciò nonostante, mi capitò qualche
volta di cadere nella loro trappola.
Ricordo ancora un titolo che catturò la mia attenzione
e mi obbligò a continuare a leggere l’intero articolo. Riportava la notizia che
40 milioni di polacchi sarebbero entrati
in Inghilterra, e non c’era posto per tutti. Lo lessi proprio mentre stavo
scendendo dal treno, e mi colpì tanto da
riuscire perfino a distogliermi dalle mie congetture mentali mattutine.
Pensai che doveva esserci stata qualche esplosione nucleare in Russia, o
qualcosa di simile, e cominciai subito a preoccuparmi di come fare a rendere
disponibile una stanza a casa mia, per ricevere la mia quota di rifugiati
polacchi. Mi fermai a leggere l’articolo per completo e mi resi conto che la
notizia riguardava l’ingresso della Polonia nell’Unione Europea e questo,
secondo il Daily Mail, avrebbe segnato la fine del paese, in quanto 40 milioni
di polacchi avrebbero approfittato di quell’opportunità per entrare in Gran
Bretagna. Mi parve davvero un’esagerazione, e con la stessa freddezza di un
analista politico, mi domandai se questo giornale, che promuoveva l’idea di un
mondo in cui la razza umana si divide in
due, quelli che hanno avuto la fortuna di nascere nel Regno Unito da un lato e
quelli che aspettano solo l’occasione per trasferirsi lì, ai danni dei
lavoratori britannici, dall’altro avesse un pubblico di lettori. Col tempo,
scoprii che ne aveva, e non pochi, ma io continuavo a leggere quelle notizie
con l’ironia e la freddezza che la distanza da quelle vicende mi consentiva di
avere.
Passarono gli anni, ed io cominciai a faticare per
trovare dei lavori qualificati, tanto che, compiuti i cinquant’anni, mi
ritrovai senza lavoro. Non ebbi altra scelta che accettare un impiego senza
alcun tipo di qualifica, e così cominciai a lavorare in una fabbrica. Dovetti
fingere di essere una persona senza alcun titolo di studio o conoscenze varie,
perché i datori di lavoro non se ne fanno nulla delle persone che hanno
studiato, in quell’ambiente. Ci occupavamo della preparazione di confezioni di
frutta per i supermercati, ed io divenni velocissimo a separare i rametti d’uva
con le forbici. Un nastro trasporta le casse con all’interno i rami di uva, e
queste casse, del peso di circa dieci kili l’una, vanno sollevate e spostate su
di un tavolo che deve essere stato precedentemente pulito, e aperte; bisogna
togliere l’imballaggio che protegge i chicchi e buttarlo nel contenitore per il
riciclaggio, dopodichè si prendono in mano delle forbici, attaccate al tavolo
attraverso una catenella, e si cominciano a tagliare i rametti. Poi bisogna
prendere delle confezioni di plastica e se non ce ne sono a portata di mano,
andarle a cercare dall’altro lato del capannone; a volte bisogna staccarle
l’una dall’altra perchè possono attaccarsi tra di loro, e una volta separate, si
procede a mettere un rametto da 400 grammi in ogni cassettina e a pesarle, e si
aspetta che la bilancia elettronica dica
“Well done”, che significa che il peso è giusto. In caso contrario, se pesa
di più bisogna levare qualche rametto, mentre se pesa di meno aggiungerne, ma non
devono essercene mai più di tre a confezione, perché questa è la procedura
standard. Infine, si mettono le cassettine su un nastro che spesso è già occupato
da altre confezioni di uva che sono state riempite da altri operai, e in quel
caso bisogna aspettare, come se fosse facile in quella catena di montaggio; quando si crea
lo spazio, si mettono le cassettine sul nastro e si spingono dentro, mentre le
altre casse più grandi, ormai vuote, si spostano su un altro nastro. Tutta
questa operazione, finalizzata a produrre cassettine di uva precisamente da 400
grammi l’una, deve svolgersi in circa venti secondi, e tutto ciò per permettere
a dei vecchi golosi di mangiarsi la loro uva in confezioni di plastica che inquinano
l’ambiente e basta. Quei vecchi ingordi, come se non bastasse, sarebbero stati
proprio coloro che avrebbero votato a favore della Brexit di lì a poco, come
poi mi resi conto.
Nonostante tutto, il primo giorno di lavoro in quella
fabbrica mi sentivo felice e un po’ spaventato: felice perché avrei potuto
finalmente pagarmi la vita, includendo le rate di una carta di credito che mi
pendevano sulla testa; però quando vidi la velocità con cui gli operai
svolgevano le loro mansioni, mi spaventai perché pensai che non sarei mai stato
così rapido. Loro sono giovani, pensai, quindi imparano a fare tutti questi
movimenti rapidi delle mani e degli occhi senza difficoltà, ma io sono un
vecchio e non posso fare lo stesso, figuriamoci per molte ore. Quindi, passai
il mio primo giorno di lavoro cercando di scoprire quale fosse l’algoritmo
della macchina e poter così aumentare la
mia velocità: non avevo altra scelta o avrei rischiato di perdere il lavoro,
dopodiché non mi sarebbe rimasto altro da fare, se non cominciare a chiedere
l’elemosina vicino alla metropolitana di Londra o Parigi. Echale pichon Fabrizio, pensai, devi
solo trovare qualche semplice trucco per contare due volte la stessa cassettina,
cosa che avrei dovuto fare solo una volta ogni cinque confezioni, secondo il
conteggio che feci non senza fatica, in modo da mantenere quella media di
velocità. Pensai che il momento in cui si cambiavano le casse, era quello
giusto per effettuare questo doppio conteggio: provai e funzionò.
Ad ogni modo, osservavo gli altri operai e rimanevo
meravigliato dalla fluidità dei loro movimenti comparati con le goffe movenze
che accompagnavano i miei gesti, dal prendere le forbici in mano al tagliare
quei rametti. Certo, loro erano dediti al lavoro mentre io perdevo tempo alla
ricerca di stratagemmi ed inganni, nella convinzione sventurata che non sarei
riuscito a sopravvivere a quel modo e la mia profezia sembrava avverarsi,
perché invece di imparare, osservo gli altri operai e mi sento incapace e allora
mi metto ad ideare inganni, come ho imparato a fare in Venezuela; allo stesso
tempo cerco di essere efficiente, anche questo me l’hanno insegnato in
Venezuela, perché non saprei davvero cosa fare se finissi in una delle stazioni
della metropolitana qui o a Parigi, che non so neanche cantare, e tutti questi
pensieri mi distraggono e i miei movimenti si fanno ancora più lenti; allora
comincio a lavorare a tutta velocità, per compensare quel ritardo, ma senza la
disinvoltura robotica dei miei colleghi, rapidi come macchine, e penso a come
farò a pagare le rate della carta di credito, o qualunque altra spesa, e di
nuovo mi rendevo conto che ero circondato da gente più giovane di me e mi
sentivo come un vecchio che cerca di
imparare uno sport per il quale, come
unica via di successo, bisogna essere agili. Stai tranquillo, Fabrizio, che anche se noi vecchi abbiamo meno agilità
mentale, le nostre strategie meta cognitive sono superiori, quindi devo
solo concentrarmi e pensare, a qualcosa saranno pur serviti tanti anni di
studio.
Un giorno finalmente mi accorsi che la macchina
registrava la media della velocità però non sottraeva al conteggio totale i
minuti che venivano persi quando smetteva di lavorare. Infatti, la macchina si
fermava almeno per cinque minuti ogni mezz’ora, perché le cassettine che
scorrevano sul nastro trasportatore, a volte, si sovrapponevano tra loro e
tutto si fermava. Ed io, come cazzo faccio ad essere veloce se quella maledetta
macchina, ogni mezz’ora, si ferma? Che razza di sfruttatori, questi cazzo di
inglesi!
A quel punto, fingendo di dover raccogliere qualcosa
da terra, mi piegai e vidi i cavi collegati alla presa e l’ interruttore, e
pensai che se la macchina venisse spenta ad intervalli ciò significherebbe che
il conteggio della velocità ripartirebbe da capo ogni volta, abbassando il
numero di riferimento del denominatore dell’equazione dell’algoritmo. Eureka!
Ogni volta che la macchina si fosse fermata a causa delle cassettine sul
nastro, avrei fatto cadere qualcosa a terra e in quel modo avrei agito
indisturbato. Problema risolto! Da quel giorno in poi, la mia media migliorò ed
io mi tranquillizzai: avevo un lavoro e potevo pagare le rate della carta, fare
la spesa e dimenticarmi per sempre del metrò di Parigi.
Il mio secondo giorno di lavoro, vidi per la prima
volta Charlotte, la responsabile dal casco rosso che mi avrebbe reso la vita
impossibile, quella stronza. Ero concentrato al mio tavolo, cercando di lavorare
alla velocità necessaria per raggiungere gli obiettivi di produzione che i
caschi bianchi esigono dai caschi verdi, ma non era un compito facile: i caschi
bianchi, infatti, camminano tra i tavoli dove gli operai eseguono il lavoro di
tagliare i rametti di uva e non fanno altro che gridare. Queste fabbriche del
XXI secolo non sono poi così diverse da quelle dell’inizio della Rivoluzione
Industriale: i caporali sdentati urlavano a più non posso e i macchinisti dal
casco bianco dei nostri giorni fanno la stessa cosa, urlano frasi del tipo: “Hurry up, guys! C’mon!”. La regola non
scritta prevede che chi grida comanda, e chi sta sotto ubbidisce e sta zitto.
L’unico indizio che indica che non siamo in una fabbrica del XIX secolo è che
ogni tanto qualcuno ti dice: “Well done”
, giusto per mettere in pratica quello che ha imparato in qualche corso di
formazione, ed io mi domando se quelli che insegnano queste tecniche di
motivazione abbiano mai studiato qualcosa di psicologia o di teorie cognitive,
ma la mia sensazione è che non sia così. A me, quel “Well done” mi umilia più delle urla. Ma perché?, mi domando, e mi sembra che la risposta sia ovvia: perché mi ricorda esattamente dove mi trovo.
E mentre pensavo a tutte queste cose apparve
Charlotte, la responsabile dal casco rosso, camminando a passo lento come per
sottolineare la sua intenzione di scovare, con un solo sguardo, qualunque
errore che potessimo commettere noi operai dal casco verde, accompagnata da un supervisore dal casco
azzurro da un lato e uno dal casco bianco dall’altro, terrorizzati da quello
che la generalessa avrebbe potuto vedere. Giunta davanti al mio tavolo si
fermò, guardò la mia media sulla bilancia, che ovviamente era gonfiata grazie
ai miei trucchi da creolo, e pronunciò quelle terribili parole: “You’re good. Well done”. Avrei voluto risponderle:
You are good un cazzo, cretina, che se io
valgo qualcosa, non è certo perché taglio bene i rametti d’uva, piuttosto
perché ho fregato te e la tua macchinetta di misurazione della produttività. Ma
io non sono neanche lontanamente così maleducato, né così agile con le parole,
quindi non dissi niente. L’unica risposta che riuscii a dare fu con lo sguardo,
perché osai guardarla negli occhi per una frazione di secondo, niente di più,
ma in un batter d’occhio si era già allontanata dal mio tavolo e si dirigeva
con passo trionfante, la fronte alzata e il mento all’insù alla Mussolini verso
un’altra postazione, come se volesse assicurarsi di guardare tutti dall’alto
verso il basso, soprattutto gli operai dell’Europa dell’Est, che erano in tanti
e generalmente più alti di statura.
Sollevato per aver superato il test di controllo della
mia velocità media di lavoro da parte di un casco rosso, massima figura nella
gerarchia della fabbrica, potevo finalmente tornare a concentrarmi sull’altro
importante obiettivo di cui dovevo occuparmi lì dentro, ovvero non perdere del
tutto la mia salute mentale. Senza dubbio, dovevo tenere a mente che stavo
scrivendo la storia di Sofia, la mia amica venezuelana che aveva chiesto asilo
proprio in questo paese che disprezza gli immigrati, e pensai che tutto sommato
ogni esperienza che vivevo mi insegnava qualcosa di ciò che anche lei aveva
vissuto sulla sua pelle. Mi misi in testa che avrei raccontato la storia della
diaspora venezuelana, per lo meno ciò che avevo visto con i miei occhi, e per
quanto sia obbligato dalla necessità a tagliare rametti d’uva, eccomi qui, a
raccontare questa storia. Guardai con attenzione l’operaio che stava lavorando
davanti a me: sicuramente era più veloce di me, però la sua media, povero lui,
era appena sufficiente a farlo sopravvivere in quella fabbrica. Pensai che
avrei potuto approfittare della situazione per conoscere con che classe di
gente si fosse relazionata Sofia durante la sua permanenza nel mercato del
lavoro britannico, e mi sentii pronto ad intraprendere un’intervista che avrebbe
scavato a fondo nella questione, pura sociologia in azione. Pronto per
conoscere la vita del compagno operaio lì davanti a me, cercai una frase da
dire per rompere il ghiaccio:
-Hard job – dissi ad alta voce, e rimasi ad
osservarlo. Sollevò lo sguardo, mi guardò, ma non disse nulla.
- Hard job – ripetei – Isn’t it? - . Mi guardò
nuovamente.
-How long you been doing this job? – chiesi, nella
speranza di riuscire a far partire una conversazione.
- Me, coming tomorrow – mi disse con tono deciso.
- Me English,
no English. Me, coming tomorrow, no English, me sorry.
La situazione non migliorò, nonostante i miei sforzi
per cercare di comunicare con quell’uomo e allora mi misi a riflettere, nel bel
mezzo di quell’attività frenetica di taglio e smistamento, e pensai che se
avessi avuto la capacità di lavorare velocemente attraverso la memorizzazione
di tecniche di movimento specifiche avrei potuto conversare in maniera più
prolifica con qualche operaio che parlasse in inglese ed in questo modo
intervistare gli operai e conoscere qualcosa delle loro vite. Ma ciò che
accadde fu che invece di perfezionare la mia tecnica di lavoro a favore della
produttività dell’azienda, mi venne in mente il nome di Bandura, il famoso
psicologo, il quale aveva teorizzato l’idea dell’esistenza di processi di
apprendimento automatici, e capii che se riuscivo a rendere i miei movimenti funzionali e meccanici, avrei
avuto la mente più libera per poter pensare, un po’ come quando si guida una
macchina, che all’inizio sembra complicatissimo, tra cintura di sicurezza,
frecce, cambio, freno e quant’altro, ma poi diventa un’azione automatica, una
volta che tutti i movimenti sono stati interiorizzati. Mi convinsi che ci sarei
riuscito e che avrei lavorato e guadagnato uno stipendio mentre in realtà, allo
stesso tempo, avrei avuto modo di pensare
al romanzo che avrei scritto.
Il primo passo per poter scrivere il mio libro è avere
il tempo per pensare, e ciò significa che devo imparare a lanciare le
cassettine di uva sul nastro trasportatore
invece di portarcele, così guadagno qualche secondo. Cominciai dunque ad
allenarmi a tirarle da diverse distanze, prima da vicino, poi sempre più
lontano, e al termine del turno serale, alla fine del mio terzo giorno di
lavoro, avevo imparato a tirare le cassettine sul nastro con la giusta forza e
angolazione in modo che atterrassero sul nastro senza che ne fuoriuscisse nulla,
con un colpo da maestro. Inventai un metodo efficiente anche per afferrare le
casse più grandi e aprirle col pollice in un colpo solo e farle cadere sul
tavolo nel punto esatto in cui mi serviva che fossero posizionate. Imparai
anche a tirare gli scarti degli imballaggi nei secchi per il riciclaggio. Quello che non si fa in questa vita, pur di
andare avanti.
Ci vollero ore
di allenamento e una buona dose di interiorizzazione mentale per
riuscire ad automatizzare ogni movimento, ma la cosa più strabiliante fu che
riuscii a sviluppare la capacità di riconoscere i grappoli di uva da
quattrocento grammi solo con lo sguardo. Ci volle una settimana per controllare
a pieno questa nuova facoltà, perché i grappoli d’uva sono diversi tra loro,
alcuni sono più frondosi, altri meno, alcuni chicchi hanno più acqua
all’interno e quindi sono più pesanti di altri, insomma, imparai un mucchio di
sciocchezze che non interessano a nessuno ma che mi permisero di svolgere il
mio lavoro con la precisione e la velocità di un robot venuto dal futuro a
rimpiazzarmi. E così divenni il tagliatore di uva più veloce della storia di quella fabbrica, e
grazie alla combinazione dei miei trucchi creoli con l’efficienza dei movimenti
che avevo imparato riuscivo ad ottenere risultati migliori di coloro che
ingannavano spudoratamente il sistema pesando la stessa cassettina due volte, ma
con la differenza che loro venivano scoperti, mentre io ero imbattibile.
Un giorno venne di nuovo a visitarmi Charlotte, la
generalessa dal casco rosso, col suo modo di fare alla Mussolini che sembrava
volesse rendermi la vita impossibile. Si fermò ad osservare come lavoravo, ed
io sapevo perfettamente che avrebbe
potuto licenziarmi per un’inezia, se solo lo avesse voluto. Voleva capire come
facessi ad essere così veloce e restò ad osservarmi per quasi dieci minuti. I
trucchi che avevo affinato, li usavo solo quando volevo prendermi una pausa da
quei ritmi massacranti ma adesso dovevo lavorare alla massima velocità senza
inganni, ed ero preparato, ovviamente, non sono mica scemo. Tutto andò liscio
come l’olio, e quando Charlotte vide sull’indicatore della macchina che la
media era di 3.6 cestini riempiti al minuto, mi disse di nuovo: “Bravo, ma che velocità, well done”. E
così continuai a lavorare, soddisfatto di aver ingannato tutti, generalessa
compresa.
Un giorno come tanti, arrivò un lotto di uva che si
era un pò rovinata e uno dei supervisori col casco bianco si avvicinò ai nostri
tavoli a dirci che facessimo attenzione a levare i chicchi che erano marciti;
quindi non solo bisognava tagliare i rametti e pesare le cassettine, ma
dovevamo anche togliere i chicchi rovinati, e questo richiedeva una maggiore attenzione e come conseguenza, l’impossibilità di
mantenere la stessa velocità. Questo ragionamento mi sembrava logico, ma chissà
cosa passa nella mente di un popolo che pesa tutto in libre, pietre e once.
L’uomo dal casco bianco ci disse di nuovo di fare attenzione, che la cosa più
importante era la qualità del prodotto, quindi cominciai a fare ciò che mi
veniva richiesto, a discapito della velocità di esecuzione; ma poco dopo arrivò
un altro signore dal casco azzurro che venne a dirci, gridando, di lavorare più
rapidamente, allora ci mettemmo tutti ad eseguire il lavoro più alacremente; ma
ecco che un altro impiegato, dal casco arancione, arrivò di corsa e tenendo tra
le mani una cassettina di frutta tirò fuori un rametto tutto ammuffito e ce lo
mostrò. “Inaccetabile!”, disse ed io
mi trovai d’accordo e prestai ancora più attenzione per evitare di pescare
rametti con i chicchi marci o rovinati. Non erano passati neanche dieci minuti
che l’uomo dal casco azzurro tornò a dirci che dovevamo lavorare più
rapidamente; gli feci notare che il suo collega dal casco arancione ci aveva
detto di fare più attenzione, allora mi rispose che ovviamente dovevamo sia
prestare attenzione che lavorare velocemente.
Davanti a quel paradosso pensai che mi conveniva
lavorare rapidamente, tanto l’attenzione non veniva misurata ma la velocità sì;
a quel punto, uno dei caschi bianchi tornò a dirci che dovevamo fare più
attenzione perche’ i rametti marci nelle cassettine erano inaccettabili ed io,
ormai infastidito da quei controsensi, gli spiegai che il suo collega ci aveva
detto che dovevamo essere più veloci, ma nuovamente ricevetti la stessa
risposta: dovevamo essere tanto veloci quanto precisi. Comparve nuovamente
l’uomo dal casco arancione e camminando tra i tavoli, cominciò a sgridarci e a
domandarci, in tono quasi pedagogico: “Cos’è
più importante, secondo voi? La qualità del prodotto o la quantità?” e
aggiunse: “Ma voi, comprereste mai
dell’uva così?”. A quel punto, spinto da quei ragionamenti di natura quasi
etica e morale, decisi davvero di mettermi d’impegno ma uno dei caschi azzurri
che girava anche lui tra i tavoli offrì una variante al tema e gridando come se
stesse dietro ad un gregge di pecore, ci disse che se non volevamo perdere il
lavoro ci conveniva fare attenzione agli standard di velocità.
Cavolo, pensai, già mi hanno cacciato da così tanti posti,
al diavolo la morale e la qualità, meglio
dare retta a quello col casco azzurro, ma nonostante ciò non potei
trattenermi e anche a lui dissi che avrebbero dovuto mettersi d’accordo, o
lavoravamo bene o lavoravamo rapidamente ma di nuovo mi rispose che bisognava
fare entrambe le cose; allora gli chiesi se trovandosi a guidare su una strada
e vedendo un cartello di segnaletica che indicasse di prestare attenzione, lui
avrebbe aumentato o ridotto la velocità; mi rispose che lui prestava più
attenzione quando guidava velocemente. E così mi arresi a quella follia, e la giornata di lavoro giunse quasi al
termine, tra le indicazioni degli uni e le sfuriate degli altri.
Ad un tratto, l’uomo dal casco azzurro si avvicinò al
mio tavolo e mi chiese come andava o qualunque altra cosa che si possa tradurre
con l’espressione: “What’s up?”. A me
parve che era piuttosto infastidito, forse per l’appunto che gli avevo fatto
poco prima, magari l’aveva capito solo adesso, ad ogni modo non riuscii a
trattenermi e gli dissi che se volevano che facessimo attenzione e togliessimo
tutti i chicchi marci, dovevano accettare che avremmo lavorato più lentamente.
Fece una faccia disgustata e cominciò a proferire parole nel dialetto locale,
mentre a poca distanza camminava la generalessa. Decisi che era giunto il
momento di farla finita con tutta quella confusione. Feci un gesto a Charlotte per farle capire che
volevo parlare con lei e lei mi guardò sorpresa, poi si girò verso l’uomo dal
casco azzurro, come per dire: “Ma cosa
vorrà mai da me questo plebeo?”. Quando si avvicinò, le dissi che era tutto
il giorno che ricevevamo istruzioni contraddittorie, da un lato ci veniva
chiesto di lavorare velocemente, dall’altro di fare attenzione, quindi di
essere più lenti. Immediatamente si rivolse al collega dal casco azzurro, come
se la mia spiegazione dei fatti non fosse chiara. L’uomo allora, con grande
abilità dialettica, guadagnata sicuramente nei tanti anni di lavoro come
responsabile di reparto, fece il riassunto della situazione: disse che io non
volevo seguire le istruzioni, come se la questione fosse davvero quella. Cercai
di spiegare, ancora una volta, che il problema era che le istruzioni che ci
venivano date non erano chiare, ma la generalessa mi interruppe e ripetè il
discorso del casco azzurro. Dissi che non avevo alcun problema a lavorare
velocemente, ma non avrei potuto porre l’attenzione che mi veniva richiesta,
però per l’ennesima volta non mi fece finire di parlare e mi disse che dovevo
imparare ad ascoltare, altro che parlare, che dovevo seguire le istruzioni,
altro che ribattere, e continuò sullo stesso tono degli altri colleghi e a me
non restò altro che ascoltare diligentemente. Quando ebbe finito, le chiesi a
quali istruzioni dovevo attenermi, quelle di prima o quelle di adesso, ma non
mi fece finire e infastidita mi chiese di seguirla.
Cominciammo a camminare verso gli uffici lungo i corridoi
del capannone, le cui pareti erano ricoperte da poster e manifesti su come
lavarsi le mani, indici di produttività, impiegato del mese, foto dei volti
sorridenti dei capi ( e sorridono solo in foto, in realtà, perché a lavoro sono
sempre nervosi e arrabbiati); salimmo delle scale ed infine giungemmo davanti
ad una porta. Era la porta d’uscita. Charlotte chiamò il portiere e gli disse
che telefonasse al responsabile dell’agenzia che mi aveva assunto mentre lei si
sarebbe occupata di telefonare al responsabile del magazzino. Il portiere mi
disse, a bassa voce, che ogni qualvolta la generalessa portava qualcuno davanti
a quella porta e cominciava a fare telefonate, significava che stavano per
licenziarlo.
-Ogni quanto succede? – chiesi.
-Un paio di volte a settimana.
-Cazzo, sono licenziato- pensai.
Quando il capo dei caschi rossi arrivò, la generalessa
gli spiegò brevemente la situazione, cioè che io non seguivo le istruzioni e
non avevo intenzione di farlo. L’uomo ascoltò con impazienza e mi disse che se
non ero disposto a seguire le istruzioni non potevo lavorare lì. Cercai di dire
qualcosa ma mi interruppe per ripetermi il discorso della generalessa; cercai
di spiegarmi meglio ma mi disse che dovevo fare silenzio ed ascoltare. Arrivò
poi il responsabile dell’agenzia, si piazzò alle mie spalle e anche lui ripetè
lo stesso discorso, sottolineando che non potevo di certo lavorare lì, a meno
che non avessi cominciato ad ascoltare ciò che mi veniva detto e a me venne
voglia di dirgli che avevo sentito tutti fare lo stesso discorso, ma nessuno
aveva ascoltato me, però non dissi nulla, non ne ebbi modo. Immaginavo già il
conto della mia carta di credito che riprendeva a salire, tutte le spese che
non sarei più riuscito a pagare, mentre cercavo lavoro da tutte le parti, come
un disperato. Mi sembrava di non avere alcun modo per difendermi in questo
processo sommario che mi veniva fatto davanti alla porta d’uscita della
fabbrica. Il capo dei caschi rossi mi stava già indicando di uscire mentre
istruiva, sempre a sguardi e a gesti, il rappresentante dell’agenzia affinchè
si occupasse della parte burocratica, quando finalmente riuscii ad aprire bocca:
-Posso fare una domanda? – dissi, pensando che con la
scusa di chiedere qualcosa, avrei potuto finalmente parlare, e non mi
sbagliavo. Il capo dei capi, con tono magnanimo, mi disse che certamente potevo
fare una domanda, come potevo pensare il contrario?
-Quali indicazioni devo seguire se un superiore mi
dice una cosa e un altro superiore me ne dice un’altra?
-Ma cosa sta dicendo?- mi rispose, mentre Charlotte mi
guardava con disprezzo e la sua aria mussoliniana aumentava di pari passo.
-Il problema è che da un lato mi viene detto di
lavorare velocemente e dall’altro che faccia attenzione, e mi sembra che sia i
caschi arancioni che quelli bianchi prendano molto sul serio le loro richieste.
Il capo dei capi girò lo sguardo verso Charlotte, la quale era diventata quasi
dello stesso colore del suo casco. Immediatamente disse:
-Questo non è l’unico problema! Quest’impiegato è il
più lento di tutti, non riesce neanche a stare dietro al ritmo delle macchine.
-Non è vero – risposi con fermezza- il mio ritmo è
sempre veloce e costante, potete controllare nel sistema, è tutto registrato.
Charlotte mosse la testa da un lato all’altro e mi
disse di abbassare la voce. Anche il rappresentante dell’agenzia mi disse di
non gridare e di stare al posto mio e il capo dei capi ripetè lo stesso, ma
aggiunse che per quella notte potevo rimanere a patto che mantenessi la velocità
minima di lavoro. Alla fine decisero di non licenziarmi ed io notai sul volto
di Charlotte i segni della sconfitta.
Tornai nel mio reparto e terminai il mio turno,
lavorando a velocità costante ed al di sopra del limite massimo, senza bisogno
di ricorrere ad alcun tranello, grazie ai miei esperimenti e alla mia tenacia.
Finalmente la giornata finì ed io tornai a casa, vittorioso. Ma la vendetta
della generalessa non si sarebbe fatta attendere, però questa sarà un’altra
storia. Arrivai a casa e trovai Fabiana, mia figlia, che si era appena alzata e
stava preparandosi per andare chissà dove. Era terrorizzata perché aveva visto
di nuovo un topo che si infilava nella cucina. Il nostro gatto neanche ci prova
a catturarlo, quando lo vede scappa, ma ad essere sinceri sembra del tutto
inoffensivo, anzi a me sembra quasi carino. Ma bisogna catturarlo, perché
chissà dove si infila e cosa combina in quella cucina. Quella notte le
raccontai quello che mi era successo a lavoro, e lei volle ribattezzare il topo
col nome di Charlotte. Quel nome fu la sua maledizione, povero topolino, perché
io alla fine lo ammazzai con un colpo di scopa in testa e lo sotterrai in
giardino, per evitare cattivi odori. E lì fu quando mia figlia, per la seconda
volta nel giro di poche settimane, mi chiamò razzista.
1 commento:
Mi piace tantissimo questo racconto. Le tue riflessioni sono disarmanti e vere. Con punte di ironia tocchi temi sensibili e la condivisione dei tuoi stati d'animo permettono di sentire l'esperienza raccontata come propria. Ci appartiene grazie
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