sabato 8 luglio 2023

Delitto senza Castigo


Versione elettronica della 'raccolta di racconti del bloody migrant' é  disponibile su Kindle


Dopo l’uccisione di Charlotte, mi toccò risolvere il problema di cosa farne del cadavere. Ovviamente, non potevo lasciarlo andare in decomposizione, perché l’odore avrebbe allarmato i vicini e chissà quali sarebbero state le conseguenze. Proprio in quel momento, mentre scavavo la fossa nel cuore della notte, apparve mia figlia Fabiana, spaventata a morte. Non c’era da stupirsi.

-Ma papà, che stai facendo? 

- Quello che vedi: una tomba per questo cazzo di ratto inglese. Che ci vuoi fare, gli ho dovuto fracassare il cranio e gli è pure fuoriuscito il cervello. Cosi impara a votare a favore della Brexit.

-Oddio – disse stupefatta. E non si dimentichi che “oddio” non è un’ invocazione frequente nella mia famiglia, ormai da generazioni. Mia figlia è atea come me, sua madre ha perso la fede un po’ alla volta, e anche i miei genitori, e credo due dei miei nonni, per non parlare di un bisnonno che venne scomunicato, erano tutti atei.

-Oddio – ripetè, guardando quel cadavere.

-Tutti i nodi vengono al pettine. Era giunta l’ora anche per questo schifoso ratto inglese. – dissi.

- E l’hai ucciso così, a sangue freddo? – la sua voce era incredula – e sei pure diventato razzista.

- Si chiamava Charlotte, e gli ho dato un bel colpo in testa – le dissi, solo per darle fastidio.

Ci sarebbero cose più importanti da raccontare in questa storia dell’uccisione di un topo, però mentre mi appresto a scavare una fossa nel giardino per seppellire questo cadavere, faccio mille pensieri e mi rendo conto che è la seconda volta nel giro di poche settimane che mia figlia mi accusa di razzismo e questa cosa mi fa arrabbiare, e mi domando se questo mio razzismo sia uguale a quello degli inglesi caucasici, dato che si manifesta in una società nella quale io mi trovo dal lato degli oppressi. Insomma, una cosa è essere razzisti quando fai parte della classe dominante e quindi stai praticamente giustificando quella struttura di potere, un’altra è essere un razzista quando sei segregato e sfruttato da quella stessa società, penso. E ci penso sù ancora un po’, e giungo alla conclusione che il razzismo è pur sempre razzismo, ed essere una vittima non è una giustificazione valida per fare la vittima, il resto non conta. Anche alcuni stupratori sono stati vittime di abusi sessuali da piccoli, lo sanno tutti, però molte di queste vittime diventano resilienti e finiscono per essere delle brave persone, quindi il razzismo vendicativo non vale, non va bene, è sbagliato. Questi erano i miei pensieri, mentre rapidamente finivo di scavare la fossa.

Arrivò una folata di vento freddo, maledetto clima inglese, quindi mi affrettai a buttare quel corpo senza vita nel buco che avevo scavato, senza neanche preoccuparmi di tapparlo. Entrai in casa e mi rimisi sul divano, il mio luogo di riflessione preferito. Sdraiato a quel modo, con la testa appoggiata su un bracciolo e i piedi sull’altro, che è come ci si dovrebbe posizionare per riflettere dopo aver compiuto un qualche gesto trascendentale, soprattutto dopo essersi sbarazzati di un nemico, per quanto piccolo ed insignificante, cominciai a pensare a tutta la questione. Cercai di ricordare quando fosse cominciata questa storia del razzismo, perché non era una cosa successa così, all’improvviso. Era accaduto un po’ alla volta, ma senza dubbio, il giorno dei risultati del referendum per votare a favore o contro l’uscita dall’Europa, ovvero la famosa Brexit, era stato un momento cruciale. Quel giorno uscii di casa diretto verso il centro della città, e non potevo trattenermi dal guardare fissamente ogni anziano che mi passava davanti: se era grasso e caucasico, aveva sicuramente votato a favore della Brexit. Questo era a mio avviso lo stereotipo di coloro che volevano lasciare l’Europa: vecchi, grassi e diabetici. E per giunta ignoranti, pensavo, ma questo mio paradigma andò modificandosi un po’ alla volta, fino ad includere qualunque inglese caucasico che incontrassi. E che sia chiaro a tutti che per me questi sostenitori della Brexit non sono una categoria sociale soggetta a verifiche empiriche, nient’affatto. Per me, si tratta di creature che hanno votato in quel modo affinchè io me ne vada dal loro paese e smetta di infastidirli con la mia presenza, non possa più lavorare lì né guadagnare, tantomeno essere scelto per i lavori che spettano a loro e neanche possa più mettermi in fila dal medico, al supermercato o al semaforo. Insomma, la Brexit divenne per me la negazione del mio diritto ad esistere e, come conseguenza, trasformò i miei sentimenti di fallimento e frustrazione personali in rifiuto e odio. E così, con questi pensieri, continuai a crogiolarmi sul divano, e cominciai a ricordare molte altre cose.

Anni prima, quando avevo un buon lavoro e tutti i giorni andavo in ufficio a Leeds, mi capitava sempre, soprattutto quando arrivavo alla stazione dei treni, di leggere i titoli in prima pagina  dei giornali, in particolare del Daily Mail, un periodico che non ha mai fatto nulla per mascherare la sua avversione per gli stranieri, tranne, a suo tempo, per Hitler e Mussolini, almeno finchè non dichiararono guerra alla Francia e all’Inghilterra. Leggevo i titoli di questo giornale con la freddezza del sociologo, non con la passione dello sfruttato, come un biologo osserverebbe la lotta tra un ragno ed una mosca, niente di più. Un giorno dichiarava che tutti gli immigrati erano degli scansafatiche che vivevano grazie all’assistenza sociale, e il giorno dopo scriveva che erano tutti indaffarati a rubare il lavoro agli autoctoni locali. Il messaggio era chiaro: essere un immigrato è sbagliato di per sè, che si lavori o meno. Notavo la dissonanza di queste convinzioni, ma per me, all’epoca, il Daily Mail non era altro che una curiosità antropologica. Ciò nonostante, mi capitò qualche volta di cadere nella loro trappola.

Ricordo ancora un titolo che catturò la mia attenzione e mi obbligò a continuare a leggere l’intero articolo. Riportava la notizia che  40 milioni di polacchi sarebbero entrati in Inghilterra, e non c’era posto per tutti. Lo lessi proprio mentre stavo scendendo dal treno, e mi colpì tanto da  riuscire perfino a distogliermi dalle mie congetture mentali mattutine. Pensai che doveva esserci stata qualche esplosione nucleare in Russia, o qualcosa di simile, e cominciai subito a preoccuparmi di come fare a rendere disponibile una stanza a casa mia, per ricevere la mia quota di rifugiati polacchi. Mi fermai a leggere l’articolo per completo e mi resi conto che la notizia riguardava l’ingresso della Polonia nell’Unione Europea e questo, secondo il Daily Mail, avrebbe segnato la fine del paese, in quanto 40 milioni di polacchi avrebbero approfittato di quell’opportunità per entrare in Gran Bretagna. Mi parve davvero un’esagerazione, e con la stessa freddezza di un analista politico, mi domandai se questo giornale, che promuoveva l’idea di un mondo  in cui la razza umana si divide in due, quelli che hanno avuto la fortuna di nascere nel Regno Unito da un lato e quelli che aspettano solo l’occasione per trasferirsi lì, ai danni dei lavoratori britannici, dall’altro avesse un pubblico di lettori. Col tempo, scoprii che ne aveva, e non pochi, ma io continuavo a leggere quelle notizie con l’ironia e la freddezza che la distanza da quelle vicende mi consentiva di avere.

Passarono gli anni, ed io cominciai a faticare per trovare dei lavori qualificati, tanto che, compiuti i cinquant’anni, mi ritrovai senza lavoro. Non ebbi altra scelta che accettare un impiego senza alcun tipo di qualifica, e così cominciai a lavorare in una fabbrica. Dovetti fingere di essere una persona senza alcun titolo di studio o conoscenze varie, perché i datori di lavoro non se ne fanno nulla delle persone che hanno studiato, in quell’ambiente. Ci occupavamo della preparazione di confezioni di frutta per i supermercati, ed io divenni velocissimo a separare i rametti d’uva con le forbici. Un nastro trasporta le casse con all’interno i rami di uva, e queste casse, del peso di circa dieci kili l’una, vanno sollevate e spostate su di un tavolo che deve essere stato precedentemente pulito, e aperte; bisogna togliere l’imballaggio che protegge i chicchi e buttarlo nel contenitore per il riciclaggio, dopodichè si prendono in mano delle forbici, attaccate al tavolo attraverso una catenella, e si cominciano a tagliare i rametti. Poi bisogna prendere delle confezioni di plastica e se non ce ne sono a portata di mano, andarle a cercare dall’altro lato del capannone; a volte bisogna staccarle l’una dall’altra perchè possono attaccarsi tra di loro, e una volta separate, si procede a mettere un rametto da 400 grammi in ogni cassettina e a pesarle, e si aspetta che la bilancia elettronica dica “Well done”, che significa che il peso è giusto. In caso contrario, se pesa di più bisogna levare qualche rametto, mentre se pesa di meno aggiungerne, ma non devono essercene mai più di tre a confezione, perché questa è la procedura standard. Infine, si mettono le cassettine su un nastro che spesso è già occupato da altre confezioni di uva che sono state riempite da altri operai, e in quel caso bisogna aspettare, come se fosse facile  in quella catena di montaggio; quando si crea lo spazio, si mettono le cassettine sul nastro e si spingono dentro, mentre le altre casse più grandi, ormai vuote, si spostano su un altro nastro. Tutta questa operazione, finalizzata a produrre cassettine di uva precisamente da 400 grammi l’una, deve svolgersi in circa venti secondi, e tutto ciò per permettere a dei vecchi golosi di mangiarsi la loro uva in confezioni di plastica che inquinano l’ambiente e basta. Quei vecchi ingordi, come se non bastasse, sarebbero stati proprio coloro che avrebbero votato a favore della Brexit di lì a poco, come poi mi resi conto.

Nonostante tutto, il primo giorno di lavoro in quella fabbrica mi sentivo felice e un po’ spaventato: felice perché avrei potuto finalmente pagarmi la vita, includendo le rate di una carta di credito che mi pendevano sulla testa; però quando vidi la velocità con cui gli operai svolgevano le loro mansioni, mi spaventai perché pensai che non sarei mai stato così rapido. Loro sono giovani, pensai, quindi imparano a fare tutti questi movimenti rapidi delle mani e degli occhi senza difficoltà, ma io sono un vecchio e non posso fare lo stesso, figuriamoci per molte ore. Quindi, passai il mio primo giorno di lavoro cercando di scoprire quale fosse l’algoritmo della macchina  e poter così aumentare la mia velocità: non avevo altra scelta o avrei rischiato di perdere il lavoro, dopodiché non mi sarebbe rimasto altro da fare, se non cominciare a chiedere l’elemosina vicino alla metropolitana di Londra o Parigi. Echale pichon Fabrizio, pensai, devi solo trovare qualche semplice trucco per contare due volte la stessa cassettina, cosa che avrei dovuto fare solo una volta ogni cinque confezioni, secondo il conteggio che feci non senza fatica, in modo da mantenere quella media di velocità. Pensai che il momento in cui si cambiavano le casse, era quello giusto per effettuare questo doppio conteggio: provai e funzionò.

Ad ogni modo, osservavo gli altri operai e rimanevo meravigliato dalla fluidità dei loro movimenti comparati con le goffe movenze che accompagnavano i miei gesti, dal prendere le forbici in mano al tagliare quei rametti. Certo, loro erano dediti al lavoro mentre io perdevo tempo alla ricerca di stratagemmi ed inganni, nella convinzione sventurata che non sarei riuscito a sopravvivere a quel modo e la mia profezia sembrava avverarsi, perché invece di imparare, osservo gli altri operai e mi sento incapace e allora mi metto ad ideare inganni, come ho imparato a fare in Venezuela; allo stesso tempo cerco di essere efficiente, anche questo me l’hanno insegnato in Venezuela, perché non saprei davvero cosa fare se finissi in una delle stazioni della metropolitana qui o a Parigi, che non so neanche cantare, e tutti questi pensieri mi distraggono e i miei movimenti si fanno ancora più lenti; allora comincio a lavorare a tutta velocità, per compensare quel ritardo, ma senza la disinvoltura robotica dei miei colleghi, rapidi come macchine, e penso a come farò a pagare le rate della carta di credito, o qualunque altra spesa, e di nuovo mi rendevo conto che ero circondato da gente più giovane di me e mi sentivo come  un vecchio che cerca di imparare uno sport per il quale, come  unica via di successo, bisogna essere agili. Stai tranquillo, Fabrizio, che anche se noi vecchi abbiamo meno agilità mentale, le nostre strategie meta cognitive sono superiori, quindi devo solo concentrarmi e pensare, a qualcosa saranno pur serviti tanti anni di studio.

Un giorno finalmente mi accorsi che la macchina registrava la media della velocità però non sottraeva al conteggio totale i minuti che venivano persi quando smetteva di lavorare. Infatti, la macchina si fermava almeno per cinque minuti ogni mezz’ora, perché le cassettine che scorrevano sul nastro trasportatore, a volte, si sovrapponevano tra loro e tutto si fermava. Ed io, come cazzo faccio ad essere veloce se quella maledetta macchina, ogni mezz’ora, si ferma? Che razza di sfruttatori, questi cazzo di inglesi!

A quel punto, fingendo di dover raccogliere qualcosa da terra, mi piegai e vidi i cavi collegati alla presa e l’ interruttore, e pensai che se la macchina venisse spenta ad intervalli ciò significherebbe che il conteggio della velocità ripartirebbe da capo ogni volta, abbassando il numero di riferimento del denominatore dell’equazione dell’algoritmo. Eureka! Ogni volta che la macchina si fosse fermata a causa delle cassettine sul nastro, avrei fatto cadere qualcosa a terra e in quel modo avrei agito indisturbato. Problema risolto! Da quel giorno in poi, la mia media migliorò ed io mi tranquillizzai: avevo un lavoro e potevo pagare le rate della carta, fare la spesa e dimenticarmi per sempre del metrò di Parigi.

Il mio secondo giorno di lavoro, vidi per la prima volta Charlotte, la responsabile dal casco rosso che mi avrebbe reso la vita impossibile, quella stronza. Ero concentrato al mio tavolo, cercando di lavorare alla velocità necessaria per raggiungere gli obiettivi di produzione che i caschi bianchi esigono dai caschi verdi, ma non era un compito facile: i caschi bianchi, infatti, camminano tra i tavoli dove gli operai eseguono il lavoro di tagliare i rametti di uva e non fanno altro che gridare. Queste fabbriche del XXI secolo non sono poi così diverse da quelle dell’inizio della Rivoluzione Industriale: i caporali sdentati urlavano a più non posso e i macchinisti dal casco bianco dei nostri giorni fanno la stessa cosa, urlano frasi del tipo: “Hurry up, guys! C’mon!”. La regola non scritta prevede che chi grida comanda, e chi sta sotto ubbidisce e sta zitto. L’unico indizio che indica che non siamo in una fabbrica del XIX secolo è che ogni tanto qualcuno ti dice: “Well done” , giusto per mettere in pratica quello che ha imparato in qualche corso di formazione, ed io mi domando se quelli che insegnano queste tecniche di motivazione abbiano mai studiato qualcosa di psicologia o di teorie cognitive, ma la mia sensazione è che non sia così. A me, quel “Well done” mi umilia più delle urla. Ma perché?, mi domando, e mi sembra che la risposta sia ovvia: perché mi ricorda esattamente dove mi trovo.

E mentre pensavo a tutte queste cose apparve Charlotte, la responsabile dal casco rosso, camminando a passo lento come per sottolineare la sua intenzione di scovare, con un solo sguardo, qualunque errore che potessimo commettere noi operai dal casco verde,  accompagnata da un supervisore dal casco azzurro da un lato e uno dal casco bianco dall’altro, terrorizzati da quello che la generalessa avrebbe potuto vedere. Giunta davanti al mio tavolo si fermò, guardò la mia media sulla bilancia, che ovviamente era gonfiata grazie ai miei trucchi da creolo, e pronunciò quelle terribili parole: “You’re good. Well done”. Avrei voluto risponderle: You are good un cazzo, cretina, che se io valgo qualcosa, non è certo perché taglio bene i rametti d’uva, piuttosto perché ho fregato te e la tua macchinetta di misurazione della produttività. Ma io non sono neanche lontanamente così maleducato, né così agile con le parole, quindi non dissi niente. L’unica risposta che riuscii a dare fu con lo sguardo, perché osai guardarla negli occhi per una frazione di secondo, niente di più, ma in un batter d’occhio si era già allontanata dal mio tavolo e si dirigeva con passo trionfante, la fronte alzata e il mento all’insù alla Mussolini verso un’altra postazione, come se volesse assicurarsi di guardare tutti dall’alto verso il basso, soprattutto gli operai dell’Europa dell’Est, che erano in tanti e generalmente più alti  di statura.

Sollevato per aver superato il test di controllo della mia velocità media di lavoro da parte di un casco rosso, massima figura nella gerarchia della fabbrica, potevo finalmente tornare a concentrarmi sull’altro importante obiettivo di cui dovevo occuparmi lì dentro, ovvero non perdere del tutto la mia salute mentale. Senza dubbio, dovevo tenere a mente che stavo scrivendo la storia di Sofia, la mia amica venezuelana che aveva chiesto asilo proprio in questo paese che disprezza gli immigrati, e pensai che tutto sommato ogni esperienza che vivevo mi insegnava qualcosa di ciò che anche lei aveva vissuto sulla sua pelle. Mi misi in testa che avrei raccontato la storia della diaspora venezuelana, per lo meno ciò che avevo visto con i miei occhi, e per quanto sia obbligato dalla necessità a tagliare rametti d’uva, eccomi qui, a raccontare questa storia. Guardai con attenzione l’operaio che stava lavorando davanti a me: sicuramente era più veloce di me, però la sua media, povero lui, era appena sufficiente a farlo sopravvivere in quella fabbrica. Pensai che avrei potuto approfittare della situazione per conoscere con che classe di gente si fosse relazionata Sofia durante la sua permanenza nel mercato del lavoro britannico, e mi sentii pronto ad intraprendere un’intervista che avrebbe scavato a fondo nella questione, pura sociologia in azione. Pronto per conoscere la vita del compagno operaio lì davanti a me, cercai una frase da dire per rompere il ghiaccio:

-Hard job – dissi ad alta voce, e rimasi ad osservarlo. Sollevò lo sguardo, mi guardò, ma non disse nulla.

- Hard job – ripetei – Isn’t it? - . Mi guardò nuovamente.

-How long you been doing this job? – chiesi, nella speranza di riuscire a far partire una conversazione.

- Me, coming tomorrow – mi disse con tono deciso.

 - Me English, no English. Me, coming tomorrow, no English, me sorry.

La situazione non migliorò, nonostante i miei sforzi per cercare di comunicare con quell’uomo e allora mi misi a riflettere, nel bel mezzo di quell’attività frenetica di taglio e smistamento, e pensai che se avessi avuto la capacità di lavorare velocemente attraverso la memorizzazione di tecniche di movimento specifiche avrei potuto conversare in maniera più prolifica con qualche operaio che parlasse in inglese ed in questo modo intervistare gli operai e conoscere qualcosa delle loro vite. Ma ciò che accadde fu che invece di perfezionare la mia tecnica di lavoro a favore della produttività dell’azienda, mi venne in mente il nome di Bandura, il famoso psicologo, il quale aveva teorizzato l’idea dell’esistenza di processi di apprendimento automatici, e capii che se riuscivo a rendere i  miei movimenti funzionali e meccanici, avrei avuto la mente più libera per poter pensare, un po’ come quando si guida una macchina, che all’inizio sembra complicatissimo, tra cintura di sicurezza, frecce, cambio, freno e quant’altro, ma poi diventa un’azione automatica, una volta che tutti i movimenti sono stati interiorizzati. Mi convinsi che ci sarei riuscito e che avrei lavorato e guadagnato uno stipendio mentre in realtà, allo stesso tempo, avrei avuto modo di  pensare al romanzo che avrei scritto.

Il primo passo per poter scrivere il mio libro è avere il tempo per pensare, e ciò significa che devo imparare a lanciare le cassettine di uva sul nastro trasportatore  invece di portarcele, così guadagno qualche secondo. Cominciai dunque ad allenarmi a tirarle da diverse distanze, prima da vicino, poi sempre più lontano, e al termine del turno serale, alla fine del mio terzo giorno di lavoro, avevo imparato a tirare le cassettine sul nastro con la giusta forza e angolazione in modo che atterrassero sul nastro senza che ne fuoriuscisse nulla, con un colpo da maestro. Inventai un metodo efficiente anche per afferrare le casse più grandi e aprirle col pollice in un colpo solo e farle cadere sul tavolo nel punto esatto in cui mi serviva che fossero posizionate. Imparai anche a tirare gli scarti degli imballaggi nei secchi per il riciclaggio.  Quello che non si fa in questa vita, pur di andare avanti.

Ci vollero ore  di allenamento e una buona dose di interiorizzazione mentale per riuscire ad automatizzare ogni movimento, ma la cosa più strabiliante fu che riuscii a sviluppare la capacità di riconoscere i grappoli di uva da quattrocento grammi solo con lo sguardo. Ci volle una settimana per controllare a pieno questa nuova facoltà, perché i grappoli d’uva sono diversi tra loro, alcuni sono più frondosi, altri meno, alcuni chicchi hanno più acqua all’interno e quindi sono più pesanti di altri, insomma, imparai un mucchio di sciocchezze che non interessano a nessuno ma che mi permisero di svolgere il mio lavoro con la precisione e la velocità di un robot venuto dal futuro a rimpiazzarmi. E così divenni il tagliatore di uva più  veloce della storia di quella fabbrica, e grazie alla combinazione dei miei trucchi creoli con l’efficienza dei movimenti che avevo imparato riuscivo ad ottenere risultati migliori di coloro che ingannavano spudoratamente il sistema pesando la stessa cassettina due volte, ma con la differenza che loro venivano scoperti, mentre io ero imbattibile.

Un giorno venne di nuovo a visitarmi Charlotte, la generalessa dal casco rosso, col suo modo di fare alla Mussolini che sembrava volesse rendermi la vita impossibile. Si fermò ad osservare come lavoravo, ed io sapevo perfettamente che  avrebbe potuto licenziarmi per un’inezia, se solo lo avesse voluto. Voleva capire come facessi ad essere così veloce e restò ad osservarmi per quasi dieci minuti. I trucchi che avevo affinato, li usavo solo quando volevo prendermi una pausa da quei ritmi massacranti ma adesso dovevo lavorare alla massima velocità senza inganni, ed ero preparato, ovviamente, non sono mica scemo. Tutto andò liscio come l’olio, e quando Charlotte vide sull’indicatore della macchina che la media era di 3.6 cestini riempiti al minuto, mi disse di nuovo: “Bravo, ma che velocità, well done”. E così continuai a lavorare, soddisfatto di aver ingannato tutti, generalessa compresa.

Un giorno come tanti, arrivò un lotto di uva che si era un pò rovinata e uno dei supervisori col casco bianco si avvicinò ai nostri tavoli a dirci che facessimo attenzione a levare i chicchi che erano marciti; quindi non solo bisognava tagliare i rametti e pesare le cassettine, ma dovevamo anche togliere i chicchi rovinati, e questo richiedeva una maggiore attenzione  e come conseguenza, l’impossibilità di mantenere la stessa velocità. Questo ragionamento mi sembrava logico, ma chissà cosa passa nella mente di un popolo che pesa tutto in libre, pietre e once. L’uomo dal casco bianco ci disse di nuovo di fare attenzione, che la cosa più importante era la qualità del prodotto, quindi cominciai a fare ciò che mi veniva richiesto, a discapito della velocità di esecuzione; ma poco dopo arrivò un altro signore dal casco azzurro che venne a dirci, gridando, di lavorare più rapidamente, allora ci mettemmo tutti ad eseguire il lavoro più alacremente; ma ecco che un altro impiegato, dal casco arancione, arrivò di corsa e tenendo tra le mani una cassettina di frutta tirò fuori un rametto tutto ammuffito e ce lo mostrò. “Inaccetabile!”, disse ed io mi trovai d’accordo e prestai ancora più attenzione per evitare di pescare rametti con i chicchi marci o rovinati. Non erano passati neanche dieci minuti che l’uomo dal casco azzurro tornò a dirci che dovevamo lavorare più rapidamente; gli feci notare che il suo collega dal casco arancione ci aveva detto di fare più attenzione, allora mi rispose che ovviamente dovevamo sia prestare attenzione che lavorare velocemente.

Davanti a quel paradosso pensai che mi conveniva lavorare rapidamente, tanto l’attenzione non veniva misurata ma la velocità sì; a quel punto, uno dei caschi bianchi tornò a dirci che dovevamo fare più attenzione perche’ i rametti marci nelle cassettine erano inaccettabili ed io, ormai infastidito da quei controsensi, gli spiegai che il suo collega ci aveva detto che dovevamo essere più veloci, ma nuovamente ricevetti la stessa risposta: dovevamo essere tanto veloci quanto precisi. Comparve nuovamente l’uomo dal casco arancione e camminando tra i tavoli, cominciò a sgridarci e a domandarci, in tono quasi pedagogico: “Cos’è più importante, secondo voi? La qualità del prodotto o la quantità?” e aggiunse: “Ma voi, comprereste mai dell’uva così?”. A quel punto, spinto da quei ragionamenti di natura quasi etica e morale, decisi davvero di mettermi d’impegno ma uno dei caschi azzurri che girava anche lui tra i tavoli offrì una variante al tema e gridando come se stesse dietro ad un gregge di pecore, ci disse che se non volevamo perdere il lavoro ci conveniva fare attenzione agli standard di velocità.

Cavolo, pensai, già mi hanno cacciato da così tanti posti, al diavolo la morale e la qualità, meglio dare retta a quello col casco azzurro, ma nonostante ciò non potei trattenermi e anche a lui dissi che avrebbero dovuto mettersi d’accordo, o lavoravamo bene o lavoravamo rapidamente ma di nuovo mi rispose che bisognava fare entrambe le cose; allora gli chiesi se trovandosi a guidare su una strada e vedendo un cartello di segnaletica che indicasse di prestare attenzione, lui avrebbe aumentato o ridotto la velocità; mi rispose che lui prestava più attenzione quando guidava velocemente. E così mi arresi a quella follia, e  la giornata di lavoro giunse quasi al termine, tra le indicazioni degli uni e le sfuriate degli altri.

Ad un tratto, l’uomo dal casco azzurro si avvicinò al mio tavolo e mi chiese come andava o qualunque altra cosa che si possa tradurre con l’espressione: “What’s up?”. A me parve che era piuttosto infastidito, forse per l’appunto che gli avevo fatto poco prima, magari l’aveva capito solo adesso, ad ogni modo non riuscii a trattenermi e gli dissi che se volevano che facessimo attenzione e togliessimo tutti i chicchi marci, dovevano accettare che avremmo lavorato più lentamente. Fece una faccia disgustata e cominciò a proferire parole nel dialetto locale, mentre a poca distanza camminava la generalessa. Decisi che era giunto il momento di farla finita con tutta quella confusione.  Feci un gesto a Charlotte per farle capire che volevo parlare con lei e lei mi guardò sorpresa, poi si girò verso l’uomo dal casco azzurro, come per dire: “Ma cosa vorrà mai da me questo plebeo?”. Quando si avvicinò, le dissi che era tutto il giorno che ricevevamo istruzioni contraddittorie, da un lato ci veniva chiesto di lavorare velocemente, dall’altro di fare attenzione, quindi di essere più lenti. Immediatamente si rivolse al collega dal casco azzurro, come se la mia spiegazione dei fatti non fosse chiara. L’uomo allora, con grande abilità dialettica, guadagnata sicuramente nei tanti anni di lavoro come responsabile di reparto, fece il riassunto della situazione: disse che io non volevo seguire le istruzioni, come se la questione fosse davvero quella. Cercai di spiegare, ancora una volta, che il problema era che le istruzioni che ci venivano date non erano chiare, ma la generalessa mi interruppe e ripetè il discorso del casco azzurro. Dissi che non avevo alcun problema a lavorare velocemente, ma non avrei potuto porre l’attenzione che mi veniva richiesta, però per l’ennesima volta non mi fece finire di parlare e mi disse che dovevo imparare ad ascoltare, altro che parlare, che dovevo seguire le istruzioni, altro che ribattere, e continuò sullo stesso tono degli altri colleghi e a me non restò altro che ascoltare diligentemente. Quando ebbe finito, le chiesi a quali istruzioni dovevo attenermi, quelle di prima o quelle di adesso, ma non mi fece finire e infastidita mi chiese di seguirla.

Cominciammo a camminare verso gli uffici lungo i corridoi del capannone, le cui pareti erano ricoperte da poster e manifesti su come lavarsi le mani, indici di produttività, impiegato del mese, foto dei volti sorridenti dei capi ( e sorridono solo in foto, in realtà, perché a lavoro sono sempre nervosi e arrabbiati); salimmo delle scale ed infine giungemmo davanti ad una porta. Era la porta d’uscita. Charlotte chiamò il portiere e gli disse che telefonasse al responsabile dell’agenzia che mi aveva assunto mentre lei si sarebbe occupata di telefonare al responsabile del magazzino. Il portiere mi disse, a bassa voce, che ogni qualvolta la generalessa portava qualcuno davanti a quella porta e cominciava a fare telefonate, significava che stavano per licenziarlo.

-Ogni quanto succede? – chiesi.

-Un paio di volte a settimana.

-Cazzo, sono licenziato-  pensai.

Quando il capo dei caschi rossi arrivò, la generalessa gli spiegò brevemente la situazione, cioè che io non seguivo le istruzioni e non avevo intenzione di farlo. L’uomo ascoltò con impazienza e mi disse che se non ero disposto a seguire le istruzioni non potevo lavorare lì. Cercai di dire qualcosa ma mi interruppe per ripetermi il discorso della generalessa; cercai di spiegarmi meglio ma mi disse che dovevo fare silenzio ed ascoltare. Arrivò poi il responsabile dell’agenzia, si piazzò alle mie spalle e anche lui ripetè lo stesso discorso, sottolineando che non potevo di certo lavorare lì, a meno che non avessi cominciato ad ascoltare ciò che mi veniva detto e a me venne voglia di dirgli che avevo sentito tutti fare lo stesso discorso, ma nessuno aveva ascoltato me, però non dissi nulla, non ne ebbi modo. Immaginavo già il conto della mia carta di credito che riprendeva a salire, tutte le spese che non sarei più riuscito a pagare, mentre cercavo lavoro da tutte le parti, come un disperato. Mi sembrava di non avere alcun modo per difendermi in questo processo sommario che mi veniva fatto davanti alla porta d’uscita della fabbrica. Il capo dei caschi rossi mi stava già indicando di uscire mentre istruiva, sempre a sguardi e a gesti, il rappresentante dell’agenzia affinchè si occupasse della parte burocratica, quando finalmente riuscii ad aprire bocca:

-Posso fare una domanda? – dissi, pensando che con la scusa di chiedere qualcosa, avrei potuto finalmente parlare, e non mi sbagliavo. Il capo dei capi, con tono magnanimo, mi disse che certamente potevo fare una domanda, come potevo pensare il contrario?

-Quali indicazioni devo seguire se un superiore mi dice una cosa e un altro superiore me ne dice un’altra?

-Ma cosa sta dicendo?- mi rispose, mentre Charlotte mi guardava con disprezzo e la sua aria mussoliniana aumentava di pari passo.

-Il problema è che da un lato mi viene detto di lavorare velocemente e dall’altro che faccia attenzione, e mi sembra che sia i caschi arancioni che quelli bianchi prendano molto sul serio le loro richieste. Il capo dei capi girò lo sguardo verso Charlotte, la quale era diventata quasi dello stesso colore del suo casco. Immediatamente disse:

-Questo non è l’unico problema! Quest’impiegato è il più lento di tutti, non riesce neanche a stare dietro al ritmo delle macchine.

-Non è vero – risposi con fermezza- il mio ritmo è sempre veloce e costante, potete controllare nel sistema, è tutto registrato.

Charlotte mosse la testa da un lato all’altro e mi disse di abbassare la voce. Anche il rappresentante dell’agenzia mi disse di non gridare e di stare al posto mio e il capo dei capi ripetè lo stesso, ma aggiunse che per quella notte potevo rimanere a patto che mantenessi la velocità minima di lavoro. Alla fine decisero di non licenziarmi ed io notai sul volto di Charlotte i segni della sconfitta.

Tornai nel mio reparto e terminai il mio turno, lavorando a velocità costante ed al di sopra del limite massimo, senza bisogno di ricorrere ad alcun tranello, grazie ai miei esperimenti e alla mia tenacia. Finalmente la giornata finì ed io tornai a casa, vittorioso. Ma la vendetta della generalessa non si sarebbe fatta attendere, però questa sarà un’altra storia. Arrivai a casa e trovai Fabiana, mia figlia, che si era appena alzata e stava preparandosi per andare chissà dove. Era terrorizzata perché aveva visto di nuovo un topo che si infilava nella cucina. Il nostro gatto neanche ci prova a catturarlo, quando lo vede scappa, ma ad essere sinceri sembra del tutto inoffensivo, anzi a me sembra quasi carino. Ma bisogna catturarlo, perché chissà dove si infila e cosa combina in quella cucina. Quella notte le raccontai quello che mi era successo a lavoro, e lei volle ribattezzare il topo col nome di Charlotte. Quel nome fu la sua maledizione, povero topolino, perché io alla fine lo ammazzai con un colpo di scopa in testa e lo sotterrai in giardino, per evitare cattivi odori. E lì fu quando mia figlia, per la seconda volta nel giro di poche settimane, mi chiamò razzista.

 










































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1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi piace tantissimo questo racconto. Le tue riflessioni sono disarmanti e vere. Con punte di ironia tocchi temi sensibili e la condivisione dei tuoi stati d'animo permettono di sentire l'esperienza raccontata come propria. Ci appartiene grazie